mercoledì 12 luglio 2017

TOM PETTY and THE HEARTBREAKERS HYDE PARK 9 luglio 2017


L'ultima data del British Summer Time, appuntamento nel verde di Hyde Park diventato un classico dell'estate rock londinese  dopo il concerto dei Rolling Stones del 2013 e quello degli Who del 2015, vede come headliner Tom Petty and The Heartbreakers ed  è un boccone troppo ghiotto da lasciarsi sfuggire anche perché è l'unica data europea del suo tour del quarantennale.  I cancelli si aprono verso mezzogiorno ed il pubblico è già numeroso, c'è un piccolo palco per le esibizioni, un susseguirsi di postazioni per lo street food,  la birra e i drink,  un merchandising che vende magliette senza un attimo di tregua.

Ma è l'enorme Great Oak Stage il colpo d'occhio maggiore anche se il sole è alto ed il caldo più da pianura padana che da parco londinese, nonostante minacciose previsioni di pioggia. Imponenti querce (simulate) le cui fronde verdi sovrastano e contornano l'enorme palco danno l'idea di un ottocentesco quadro bucolico che al tramonto, grazie alla luce e agli effetti degli schermi,  si confonde con la vegetazione ed il cielo di Hyde Park. Suggestivo.  Quando prendo posto nel secondo girone sotto il palco, il gold circle, sono già all'azione James Hunter Six. 


 Con un torrido set di 40 minuti incrociano soul, R&B, qualche scampolo di blues e diverso northern soul,  musica calda, coinvolgente ed una salda conoscenza del genere messa al servizio di una interpretazione affatto banale e standard. James Hunter è un vocalist dall'ugola negroide benedetto prima da Van Morrison e poi da Allen Toussaint.  Viso rugoso da marinaio segnato dal sole, piccolo ma muscoloso, camicia rossa e Gibson in mano, canta convinto una musica figlia di James Brown, Sam Cooke, Jackie Wilson e con la sua bella voce da soul singer anni '50 non sfigura rispetto ai suoi maestri. Lo avevo visto qualche anno fa in azione a Narcao Blues ma fu un set piuttosto monotono e stanco, tutto diverso dalla esibizione londinese,  gagliarda e carica di feeling  in virtù anche di una eccellente sezione ritmica, batteria e contrabbasso, che sa essere soft nei brani di più esplicito orientamento northern soul con qualche infiltrazione jazz. Hunter è un soulman bianco dal piglio operaio, un commitment  di Colchester, Essex, nato nel 1962, orgoglioso di tenere in vita senza nostalgia una formula che in Inghilterra ha sempre fatto proseliti. Nei Six ci sono un pianista che sa il fatto suo e due scoppiettanti sassofonisti, baritono e tenore,  un combo che anche su disco ha mostrato le sue qualità e la predilezione per la sponda "nera" del rock n'roll.  The Hard Way e Minute By Minute sono due dischi che consiglio a chiunque coltivi tali orticelli.
 

Dopo di loro è la volta degli  Shelters, quartetto di Los Angeles con un unico disco alle spalle prodotto da Tom Petty. Si passa dalla fuliggine inglese al sole californiano ed è un altra storia. Due chitarristi diversi che cantano insieme o alternativamente,  trascinano un set bruciante ed elettrico, pur con moderne aperture melodiche.  Josh Jove suona la Gretsch e assomiglia ad un giovane Phil Alvin, stesso viso stessa brillantina, è il rocker della band, quello con una impostazione più classicamente rock n'roll,  gli fa da contraltare lo scatenato Chase Simpson, veemenza  grungy e fulminee entrate di chitarra, capelli al vento e morsi da teppista sonoro. Si dividono i compiti ma sono complementari,  grintosi, veloci, diretti,  la giusta attitudine per abbracciare rock garagista e power-pop,  concedersi a qualche frastuono grunge, colorare il set con uno sporadico pastello psichedelico ed unirsi in abbaglianti armonie di pop inglese alla Kinks. Attorno a loro il bassista Jacob Pillott addenta il ritmo come una iena mentre Sebastian Harris picchia sulla batteria come un ossesso.  Va in scena il loro album, un rock californiano giovane e vitaminico sposa i Replacements con Tom Petty ed è un matrimonio originale,  non il desueto rumore di tante band alternative che giocano sul sound senza avere un briciolo di idea di canzone.  Qui c'è  respiro e varietà oltre che determinazione,  gli sconosciuti  Shelters infiammano Hyde Park con un set di energia e bravura. Applausi.
 

Quando entrano in scena i Lumineers è ancora pomeriggio ed il caldo non molla. Gli spazi tra i presenti si riducono perché cala la marea del pubblico di ultima generazione  che sgomita per accaparrarsi le prime fila senza rispetto per chi ha sudato ore per tenersi la propria non idilliaca posizione.  E' il pubblico delle band di moda e non tardo molto a capirlo perché non passano molti minuti prima che tutti accompagnino  con degli insopportabili coretti di oooooh, eeeeeh, aaaah,  da concerto di Vasco le canzoni che un belloccio ma talvolta stonato cantante con aria messianica sta riversando dal palco.   I suoi compagni sono un tastierista che suona un pianoforte grande come uno yacht ma si sente a malapena, un bassista insignificante, una violoncellista imbalsamata con viso di porcellana ed uno che batte sui tamburi come fanno i Mumford and Sons creando un aspettativa di canzone che non decolla mai e rimane sempre al punto di partenza. Devo ammettere che questo folk-rock di respiro vagamente celtico (compresi Mumford & Sons, Monster of Men e compagnia bella) mi annoia oltre misura perché tutto uguale, fasullo e falsamente popolare. I Lumineers cantano la stessa canzone per cinquanta minuti, ripetitivi e senza alcun appeal melodico,  hanno come unico intento coinvolgere un pubblico di bocca buona con coretti e ritornelli che si cantano come in un karaoke. Vadano a quel paese con le loro canzonette, le loro barbe,  i loro piedi scalzi, il loro tamburo, le loro bretelle ed il loro pubblico.  I Pogues erano un' altra cosa.
 

Il tramonto lo porta  la fatalona Stevie Nicks, sono le 18 e dopo  Gold and Brain è subito Fleetwood Mac con  Gypsy, zingaresca ballata di un epoca d'oro californiana. Scrosciano applausi ed urla, lei bionda vestita di nero, grandi occhiali scuri adornata da veli e scialli, appare come una suadente maga gotica che inscena un set romantico dove immagini di piogge urbane, lupi della steppa, castelli incantati e vampiri, simboli runici fanno da coreografia ad una musica che si vorrebbe fatale e sognante. Ma così non è perché se Stevie Nicks  è quella di sempre, la voce intatta sintonizzata su un unica tonalità e i modi da regina, oggi decaduta ed invecchiata, di una ricca California rock, compresi i continui cambi di scialle, lo svolazzo dei veli, le unghie vampiresche ed il vaporoso ondeggiare sul palco, la band suona un ampolloso sound da anni ottanta, debordante nelle tastiere e plateale nelle chitarre, roba che si usa solo in qualche galà a Las Vegas. Un sound vecchio e sorpassato, laccato e tronfio, non aiutato dalla presenza di Waddy Wachtel, chitarrista che abbiamo amato con Warren Zevon, Jackson Browne, X-Pensive Winos, Linda Ronstadt ma che sul palco di Hyde Park sembra più concentrato in platealità da Reo Speedwagon.  Certo rimangono le canzoni indimenticabili della Nicks,  Dreams,  Gold Dust Woman, Criyng In The Night, Belladonna, una lunga Rhiannon interpretata con ardore e passione ma l'enfasi del set è troppo pomposa per sedurre,  non tanto per la sua regale e teatrale esibizione quanto per il suono di una band che sembra appartenere ad un'altra era.  Il pubblico applaude in massa e la Nicks lo ricambia con una intima versione di Landslide.  Dice di essere lì grazie a Tom Petty " la sua star preferita".  
 

Che ci sia stima reciproca lo si vede di lì a poco quando Tom Petty la invita sul Grand Oak Stage per cantare insieme una bella versione di Stop Draggin' My Heart Around   un ricordo dei loro primi anni ottanta quando tutto girava facile ed eccitante attorno a loro.

 
Ma se Stevie Nicks è ancorata ai ricordi, così non è  Tom Petty e i suoi Heartbreakers la più potente, lucida, scintillante, coordinata rock n'roll band oggi in circolazione, capace di unire poesia e crudezze, storie di strada e malinconie da loser, visioni bucoliche e amori spezzati,  romantica e spietata nel giro di poche note, un insieme di musicisti ed un songwriter che ti mettono al tappeto non ricorrendo all' impeto del comunicatore e tanto meno al fisico e carnale intrattenitore messianico ma con l'esclusivo potere della musica, del rock n'roll.   Una band stratosferica che suona a memoria e con divertimento, precisa e in scioltezza dietro ad un leader che non fa nulla per nascondere la sua età, compresa una pancetta incipiente e dei fastidi alla schiena,  ma è la quintessenza del rocker:  voce nasale, chitarrista eccellente, posa da ribelle con camicia rossa e gilè nero,  tra il disincantato e lo spiritoso, autore superlativo,  tenero e nostalgico quando con la chitarra acustica intona Learning To Fly e Wild Flowers, due momenti da magone complici le immagini che sullo schermo rievocano la sua storia e quella band,  ma attento a non celebrarsi sfoderando un tiro che va dritto senza fronzoli su quelle strade che hanno fatto il rock americano .  Dai Creedence ai Byrds, da Dylan a Springsteen, dal pop alla psichedelia compresa una sporca versione di I Should Have Know It, unico estratto di Mojo, una sorsata di bourbon col grado alcolico dei Black Crowes. 

 E il Tom Petty di oggi ricorda un po' Chris Robinson,  la barba incolta, i capelli lunghi, l'aria del vagabondo, la giacca militare da reduce del Vietnam indossata all'inizio dello show. Un inizio all'insegna del più puro rock n'roll con un titolo del primissimo album, Rockin' Around (With You) come volesse ringraziare Londra e l'intera Inghilterra per essere stato accettato all'inizio di carriera prima che nella madre patria. Le cose cambieranno con Damn The Torpedoes ma grazie ad un lancio promozionale che cavalcava l'ondata punk, Tom Petty riscosse il primo seguito in Inghilterra, cosa che non ha dimenticato ringraziando più volte con gentilezza e trasporto il  pubblico di Hyde Park (to be here on such beautiful London summer is amazing) e dalla felicità che traspariva nelle presentazioni delle canzoni, spesso umoristiche come nell'introduzione delle due belle coriste e ballerine inglesi, le sorelle Charlie e Hattie Webb già protagoniste con Leonard Cohen.  E' bastato l'intro chitarristico di Mary Jane's Last Dance, secondo brano dello show, a scatenare i 65 mila di Hyde Park con quella aria stracciona di un folk-rock da deserta terra di nessuno losangelena, contrappuntata dall'armonica di Scott Thurston  anche se poi è stata You Don't Know How It Feels a far capire che lo show sarebbe stato un gigantesco album della sua carriera dove trovare pezzi famosi e tracce meno conosciute, come Forgotten Man unico estratto dal recente Hypnotic Eye e come la semisconosciuta Walls della colonna sonora di She's The one.  Non so se sia una questione di diritti d'autore o che altro ma gli album più setacciati sono stati quelli a nome Tom Petty senza gli Heartbreakers ovvero Full Moon Fever e Wildflowers, ue autentici capolavori. Dal primo sono arrivate You Don't Know How It Feels,  una stellare e rarefatta versione di It's Good To Be A King, come a Lucca uno degli apici del concerto ma qui arricchito da una coda ancora più psichedelica e devastante, la malinconica ballata Crawling Back To You, l'acustica Wildflowers  e la byrdsiana You Wreck Me  con accordi alla Chuck Berry.  Dal secondo sono state prese I Won't Back Down,  la corale Yer So Bad con Petty all'acustica e Campbell con la Rickenbacker, l'evocativa Free Fallin' cantata da tutto Hyde Park ed una micidiale Runnin' Down A Dream dove gli Heartbreakers hanno cancellato ogni dubbio, sono  loro la miglior band oggi in circolazione nel classic rock.  
 
Benmont Tench e Mike Campell sono due mostri, il polistrumentista Scott Thurston la riserva che ti fa vincere la Champions, Steve Ferrone l'orologiaio della congrega, le due coriste uno spettacolo di semplicità ed erotismo senza ricorrere a banali esibizioni di nudità e lingerie.  E Tom il rocker che non fa omelie esistenziali o distribuisce messaggi universali se non quello di regalarti due ore di paradiso senza preghiere e fanatismi. Attraverso uno spettacolo superbo dove Refugee suona intatta come una volta, Don't Come Around Here No More vale più  di venti anni di brit-pop psichedelico e  American  Girl è ancora lì fresca e luminosa come quella ragazza che incontrammo a ventanni. Tutto ciò incorniciato da una coreografia di immagini, luci, disegni, ritagli di giornali e dischi, foto di chi c'è e chi c'era, strade, macchine e motel,  flash stroboscobici e raffinatezze optical, rigorosità geometriche ed esplosioni di colori, una coreografia elegante e seducente ma di straordinario impatto visivo, perfettamente coordinata con la musica. Tante emozioni ed una musica che appaga in modo totale.  Sarà difficile per me recensire il prossimo concerto perché Tom Petty and The Heartbreakers ad Hyde Park 2017 hanno rasentato la perfezione.

MAURO  ZAMBELLINI   LUGLIO 2017