giovedì 28 gennaio 2016

LUCINDA WILLIAMS 25 gennaio 2016 Ancienne Belgique Bruxelles

 
C'è una parola tanto semplice quanto chiarificatrice che sintetizza cosa è Lucinda Williams: vera. Un'artista senza filtri e senza pose che riversa sul pubblico un calore incredibile non mancando di ringraziarlo per essere accorso ad un suo concerto, magari facendo tanta strada per poterla vedere ed ascoltare.  Lo si è visto nel comodo, funzionale e acusticamente perfetto Ancienne Belgique di Bruxelles, la sera del 25 gennaio, allorché l'artista dopo un paio di brani ha esternato tutta la sua gratitudine per avere davanti a sé persone così distanti geograficamente dalla sua America, che la applaudivano sincere e commosse e conoscevano le sue canzoni tanto da canticchiarne il ritornello.

E' stato il momento in cui, se ce ne fosse stato bisogno, Lucinda Williams ha tastato con mano l'atmosfera creatasi nel locale e ha cominciato a presentare le canzoni con lunghi aneddoti,  raccontando di sé e della sua vita, dei suoi affetti, di suo padre e dei suoi miti musicali, speziandoli con  qualche battuta spiritosa su di sé e su qualche collega, smitizzando completamente  l'enfasi dell' "evento" rock.  Subito all'inizio, appena salita sul palco dopo il set muscoli e nervi dei Buick 6, la sua attuale band, mentre imbracciava la chitarra cercava vanamente di sistemarsi i polsini del suo strettissimo giubbino di pelle nera e non riuscendoci sbottava "se qualcuno stasera è venuto qui a cercare la perfezione ha sbagliato posto". E faceva partire una Drunken Angel  in grado di riordinare qualsiasi cosa e sciogliere i cuori dei quasi mille presenti che di colpo si ritrovavano catapultati nell'universo di strade polverose e storie marginali, di uomini segnati dalle vicissitudini della vita e di donne che vogliono essere solo sé stesse, che è l'essenza della sua letteratura rock. Una letteratura che nell'occasione si nutre dei suoni crudi e tosti di una band che è tutt'altro che la perfezione in campo musicale ma  ugualmente sembra perfetta per accompagnare i racconti  malandati della Williams, così pieni di abbandoni e di ordinarie miserie, di ruggine e ricordi,  ballate scaldate da una voce dolente e malinconica e poi impennate elettriche di un rock nato fondendo lo sfilacciato country del profondo sud col disperato blues della periferia urbana. 

La Williams non bluffa sulla scena, è autentica da morire e non fa nulla per nascondere la sua pronunciata pancetta trattenuta con fatica  dalla aderente mise in pelle nera,  un giubbetto, i pantaloni strettissimi e gli stivali da biker. Biondissima ma col phisique modellato dai piaceri della bottiglia, quasi fosse la reginetta di un roadhouse texano o la Meryl Streep di Dove Eravamo Rimasti, pure cosciente dei limiti di una band che non è quella con Bill Frisell, Greg Leisz o Doug Pettibone dei suoi dischi in studio ma onesta e gagliarda nel sintonizzarsi sulle note di una musica in cui l'anima incontra la carne, e lo si vede quando lei si avvicina al bravo batterista Butch Norton per accordarsi su alcuni passaggi o lascia completamente liberi i tre (il batterista è David Sutton) di scatenarsi in cavalcate grondanti sangue con Stuart Mathis che sciabola la sua Gibson SG, appartandosi nell'oscurità a lato del palco. Parla, racconta, allude, ringrazia, è palpabile la sua contentezza, proprio alla vigilia del suo compleanno, il 26 gennaio, cosa che spinge il pubblico ad un corale happy birthday to you quando lei  ritorna per l'encore  dopo due ore di show.
 

Senza filtri, si diceva,  anche quando in qualche momento la sua voce sembra genuflettersi ma è semplicemente la tonalità di uno strascicare abbandonato che ha il potere di un urlo di emozione in ballate come Bus To Baton Rouge, West Memphis,  Seeing Black arricchendole di  ancora più intensità e sofferenza.  Magnifiche. Non è la sola Lucinda Williams del concerto,  in Protection  dondola un po' goffa attorno al ritmo vagamente soul del pezzo, in altri titoli veste gli abiti del capobanda e con la chitarra acustica dirige l'orchestra verso un folk-rock dalle tinte nerastre, è il caso della bella World Without Tears, poi tira fuori una voce che zittisce anche il respiro e da sola esegue due brani del nuovo album, appunto Ghosts of Highway 20 e If There's A Heaven  per poi concedersi in coppia, col chitarrista Mathis, nella toccante Lake Charles.

E' un momento in cui la dolcezza si mischia alle cupezze dell'album appena pubblicato le cui liriche sono segnate dalla morte del padre, offrendo un'altra sfaccettatura della sua  sensibilità di autrice, una grande autrice perché sono in pochi oggi ad aver scritto così tante significative canzoni a partire da quel gioiello di Car Wheels On A Gravel Road, anno di grazia 1998. Ma a questo punto della serata, sommersa dagli applausi, l'artista di Lake Charles  lascia da parte la nostalgia e riporta i Buick 6 sul palco, tira fuori le unghie e dà il via ad un finale che ricorderò per parecchio tempo.  Scalda i motori con la cantilena ipnotica di Temporary Nature seguita da Are You Down  prima di infilarsi in un'altra delle sue presentazioni dove ricorda la volta in cui fu raggiunta sul palco di New York da Thurston Moore. Il risultato è assordante, i volumi si alzano e la versione che offre di Suffer Me sembra provenire direttamente da un disco dei Sonic Youth, così come Essence beneficia di un vigore grunge mai sentito.

Ma è l'arrembante femminismo rock di I Change The Locks  a trasformare l'Ancienne Belgique in un arena rock n'roll, tanto bollente che quando arriva Honey Bee  i Rolling Stones, o almeno Keith Richards e la sezione ritmica, sembrano lì partecipi anche loro. Qualcuno, conoscendo le scalette degli ultimi show, chiede ad alta voce Should I Stay or Should I Go dei Clash ma la Williams non si lascia "corrompere" e con una versione spettrale di Hard Time Killing Floor Blues di  Skip James rivendica le origini blues della sua musica e quando i fantasmi della Highway 20 sono definitivamente dileguati una magnifica Joy pone fine alle danze trasmettendo ai presenti un sentimento di vera gioia. Entusiasmante.
 

 
MAURO ZAMBELLINI   GENNAIO 2016

le foto sono di Francesco Calazzo e Marcello Matranga












domenica 3 gennaio 2016

MY BEST OF 2015


 
E' diventato uno degli sport più praticati sui social la playlist personale dell'anno, scatenando a volte vere ed immotivate risse tra i followers di questo o quell'altro, sebbene tutti si sforzino a specificare che non dei dischi o concerti o canzoni migliori si stratta ma solo di quelli che l'autore ha preferito durante l'anno passato. Sacrosanto punto di vista, che condivido in pieno e applico di sana pianta al mio resoconto, ma che in taluni casi, specie quando la rissa diventa da derby o peggio, non cela il fatto che qualcuno si reputi il super esperto  decidendo arbitrariamente ciò che è più bello e più meritevole. Rilassiamoci, si litiga per le religioni, la politica, il calcio, almeno con la musica divertiamoci perché anche se ha salvato vite e condizionato esistenze, sono solo canzonette, pur inscatolate in box ormai dal prezzo proibitivo. Sono proprio i box dei grandi artisti ad aver acceso gli animi e provocato i commenti più suggestivi, me ne ricordo uno particolarmente pittoresco che ha definito il singolo disco The Ties That Bind contenuto nel box del Boss, The River Collection,  ovvero quello che avrebbe dovuto essere l'originale quinto album di Springsteen, migliore del doppio album The River poi pubblicato. Difficile dire dove finisce la soggettività ed inizia l'oggettività in un giudizio critico ma qualche volta sembra che il divertimento sia spararle più grosse. Comunque ognuno può esprimere i propri punti di vista, rispettando quelli degli altri. Nessuno ad esempio mi può impedire di dire che quest'anno, per chi scrive naturalmente, è stato un anno deprimente, poche novità in grado di alzarsi da uno standard solo accettabile, nessuna scena musicale emergente se non l'avanzo di microcosmi con alle spalle i giorni migliori, tanti artisti di culto che avevano caratterizzato le annate precedenti (vedi Lucinda Williams ad esempio) assenti, i grandi impegnati a coltivare la propria fama solo aprendo i propri archivi,  scintille emotive poche, tante ripetizioni. Condivido quello che scrive Blue Bottazzi nel suo blog, nessun disco del 2015, almeno per quanto riguarda il rock più o meno classico, è degno di passare alla storia. Per la rivista per cui scrivo ho fatto fatica a mettere insieme dieci titoli per la playlist dell'anno e come ormai spesso succede, sono dovuto ricorrere alle ristampe, per completarla. Questo non vuol dire aver ascoltato poca musica, la rete e spotify offrono scorciatoie senza spendere soldi ma più degli anni passati mi sono trovato a ridurre l'acquisto di dischi rispolverando quelli archiviati negli anni passati . In particolare mi sono divertito a ripassare tanto jazz, cofanetti di Miles Davis e John Coltrane, di Charlie Mingus ( l'imperdibile Passions Of a Man), Bill Evans (Last Waltz), di Lester Young, antologie di Chet Baker (The Pacific Jazz Years 1952-1857),  vecchi vinile di Thelonious Monk e McCoy Tyner , il monumentale The Complete Billie Holiday on Verve 1945-1959  che in rete lo si trova ad un prezzo stracciato ed è una delizia assoluta,  anche meglio del box Lady Day relativo al periodo Columbia. Certo, tutto ciò non centra nulla con la produzione dell'anno ma se tutta questa musica resiste nel tempo perché dovrei limitarmi a degli ascolti che al massimo "tengono" un paio di mesi, solo perché sono recenti.
 

Le ristampe sono ormai un settore a sé della discografia, con prezzi che in taluni casi hanno del vergognoso e non inducono certo un giovane ad avvicinarsene. Si rivolgono ad un pubblico già scafato musicalmente, di ceto medio alto che può permettersi simili spese e che in molti casi ha già tutto dell'artista in questione. Come dire, tutto il contrario della base sociale su cui il rock n'roll ha fatto presa e ne è diventato  collante culturale e stile esistenziale. Il rock classico è oggi come il jazz e la classica, mettiamoci il cuore in pace. Mi sono comprato il box del Boss, non avrei potuto fare altrimenti visto che The River è uno dei cinque pezzi da novanta di Springsteen, ho sborsato 85 euro, mi sono esaltato con il Dvd del concerto di Tempe e i pensieri sono corsi a quei giorni del 1980 e 1981 quando  le canzoni di quell'album mettevano propellente alla  mia vita . Ho gustato le out-takes rese disponibili da un audio finalmente decente ma alla fine di questo tour sul fiume mi sono detto, non è che noi over fifty e over sixty alla fine amiamo di più l'oggetto piuttosto della musica che c'è dentro? Perché ormai quella, salvo rari casi, la conosciamo a memoria avendola stravissuta e stra-ascoltata  negli anni e allora quante volte ritorneremo a sentire l'oggetto in questione. Ci piace vederlo nello scaffale come un trofeo ma vivere la musica è un'altra cosa.  Non mi riferisco solo a  The River Collection ma alla maggioranza di questo tipo di pubblicazioni, box che sembrano all'inizio imprescindibili e  poi sono solo un oggetto del desiderio che diventa un feticcio da avere a tutti costi, non si vede l'ora di possederlo, anche se le canzoni li si conosce a memoria e non sono certo una decina di out-takes o di alternative takes  più un libro di belle fotografie a poter motivare una simile febbre. Considerato poi il fatto che sia per Springsteen, sia per gli Stones ed in parte anche per Dylan  ciò che a suo tempo è stato pubblicato era il meglio che si potesse avere. Così le out-takes di The River sono belle e preziose ma il doppio che uscì nell'ottobre del 1980, a parte forse un paio di canzoni, fu la scaletta più azzeccata. Capendo la malattia ( o meglio la dipendenza) cerco quindi di volare basso, anche perché le mie finanze me lo impongono, cofanetti come Fisherman's Box degli Waterboys uscito un paio di anni fa, quello sì veramente una miniera di cose mai sentite e cronaca di un esaltante work in progress creativo per di più disponibile ad un prezzo popolare, ne escono uno ogni cinque anni se va bene, e allora una selezione me la impongo per necessità e moralità. Dopo la "sola" dello scorso anno con i Basement Tapes (per fortuna me lo avevano regalato), quest'anno con Dylan ho preferito volare basso e del volume n.12 delle Bootleg Series 1965-66 mi sono fatto  il doppio CD The Best  of The Cutting Edge , davvero splendido, evitando i 100 e passa euro per il Box di 6CD, che comunque rimane a detta di molti ( e ci credo) un grande documento. Ma tant'è, less is better o forse mi consolo a pensarla così. E così anche per Sticky Fingers dei miei amati Rolling Stones mi sono limitato al double CD che basta e avanza perché, tralasciando il concerto alla Roundhouse, quanto a out-takes inedite non siamo all'altezza né della ristampa di Exile On Main Street  né di Some Girls . Tralascio di commentare il mastodontico Box di 18 CD del Cutting Edge  di Dylan, edizione limitata per una cifra di 670 dollari più tasse doganali, una vera speculazione da parte della Sony per blindare il periodo migliore di Dylan che tra poco tempo rischiava di essere di pubblico utilizzo. La musica non è di tutti ma di quelli che la mettono in cassaforte, fanno bene i giovani a scaricarsela, loro che non sono nel tunnel dei feticci e dell'oggetto solido. Sempre parlando di ristampe i Rolling Stones che in quanto a business non sono secondi a nessuno hanno tradotto fisicamente in oggetti palpabili alcuni dei live precedentemente rilasciati download. Ottimi concerti di annate diverse, audio CD corredati di intriganti DVD, ognuno con una sua valenza particolare e immagine di differenti periodi della band, magari precedentemente sottovalutati. Divertimento assicurato anche se trattasi dei soliti immarcescibili Rolling Stones, i filmati sono l'occasione per vedere come è cambiato il loro look, come Jagger riesce a rimanere sempre uguale pur cambiando, come ingrigisce Keith Richards e come Ron Wood migliora di tour in tour, come mutano le loro scalette (a parti i soliti pezzi noti) e anche il sound, a volte più rock n'roll, altre più R&B e funk. Ecco quindi  The Marquee Club Live In 1971, cinque stelle seppure sia uno show a lunghezza ridotta per uno special televisivo, Rounday Park Live In Leeds 1992, quattro stelle per un tour che aveva prodotto il mortificante Still Life, e Live At Tokyo Dome 1990, quattro stelle per la "prima" in Giappone con il tour del rientro, dopo gli anni frozen tra Jagger e Richard. Parlando di leoni del passato, in questo caso purtroppo defunti, vale la pena di farsi un giro con I'll Remember  quattro  CD che raccontano l'epopea in studio ed in concerto dei Taste, il trio di Rory Gallagher che nel 1970 all'isola di Wight oscurò con il loro incendiario rock-blues irlandese gli headliners Hendrix e Who. Proprio quel concerto, non incluso nel box in questione, è poi stato reso disponibile da un CD audio ed un DVD ( What's Goin' On- Taste- Live At The Isle of Wight) che riporta l'intera esibizione del gruppo a quello storico raduno pop.
 

La discografia ufficiale ha scoperto Willy DeVille, vivaddio, anche se è meglio aggiungere che sono i tedeschi e ricordarsi dell'artista più bistrattato ed ignorato della storia del rock. Dopo il Live at Rockpalast 1978&1981  che documentava il periodo Mink DeVille, all'inizio dell'anno è arrivato (ma è datato 2014)  l'ottimo Willy DeVille Live at Rockpalast 1995&2008  di cui ho dato ampio resoconto su questo blog. Sul fronte jazz non ho potuto esimermi da acquistare Miles Davis at Newport, primo perché sono un fan di Miles, il mio jazzista preferito assieme a John Coltrane, secondo perché in quattro CD si colgono i cambiamenti nell'estetica sonora di Davis attraverso esibizioni che spaziano tra il 1955, dimensione ancora piuttosto classica tra cool jazz e be-bop prima con Gerry Mulligan e Thelonious Monk, poi con John Coltrane e Bill Evans, e il 1975  ovvero  il Miles Davis "totale" dopo il periodo free del 1966-67 con Shorter al sax, Hancock al piano, Ron Carter al basso e soprattutto Tony Williams alla batteria e quello jazz-rock avveniristico degli anni vicini alla pubblicazione di Bitches Brew. Sono registrazioni già note ma assemblate in un appetitoso multi CD con tanto di foto e note, un modo intelligente per documentare un'evoluzione con esibizioni dal vivo..
 
 

Lasciate da parte le ristampe, passiamo all'attualità, e qui il discorso langue. In un post dell'agosto scorso intitolato Summer In The City elencavo le pubblicazioni che mi erano piaciute fino allora: innanzitutto lo splendido Ashes & Dust  di Warren Haynes & Railroad Earth, il gagliardo outsider Seasick Steve con Sonic Soul Surfer, un compendio di musica da strada a da spiaggia fuori da qualsiasi itinerario turistico, la freschezza roots-soul degli Hollis Brown di 3 Shots, l'arruffata verve barricadiera dei Banditos. Dopo l'ottimo English Oceans  dello scorso anno Patterson Hood dimostra che il vero maitre a penser  dei Drive By Truckers  è ed è sempre stato lui. Quest'anno coi DBT mi ha concesso di ritornare alle emozioni provate vendendoli dal vivo nel 2014 a Londra, lo straordinario triplo CD It's Great To Be Alive!  è per chi scrive il miglior live dell'anno. Il suo ex suo compagno di viaggio Jason Isbell con Something More Than Free, almeno per il sottoscritto,  non è invece sullo stesso livello, d'accordo che il suo è "solo" un disco in studio ma  quella brillantezza di scrittura e profondità interpretativa che molti gli riconoscono io non la sento. Come non ho ancora capito se Primrose Green di Ryley Walker è un disco da applausi per i suoi orizzonti onirici e visionari, che a tratti  rimandano a Jonathan Wilson (altra stoffa però quest'ultimo), oppure una ristampa di un disco  di Tim Buckley. Decisamente più convinto riguardo al debuttante over-cinquantenne  David Corley, uno che ha avuto una vita tribolata e continua ad averla visto che recentemente dopo un concerto ha sofferto di un attacco cardiaco. Il suo Available Light è un onesto disco di un  loser arrivato in zona Cesarini sulle strade della ballata rock. Chi non perde tempo invece è Basko Believes, alias Johan Orjansson, che con il meditabondo, lirico e sognante Idiot's Hill  si rivela un piccolo Ryan Adams degli spazi nordici. Una promessa dalla Svezia, paese che con l'etichetta Rootsy.nu dimostra sensibilità ormai rara nel promuovere songwriters dalle sonorità rurali e stradaiole. Altro bel disco è Heartbreak Pass dei Giant Sand, lavoro ricco di sfumature e suggestioni con cui la band dell'Arizona si conferma irriducibile portavoce di quel rock desertico che pulsa borderline,  anche se visti sul palco a Milano più di un mese fa, il loro set sconta dell'atteggiamento sufficiente di un Howe Gelb  dispersivo nelle presentazioni e sopra le righe,  colpa forse di qualche birra di troppo.
 
 
La voce di Rhiannon Giddens, ex Carolina Chocolate Drops oggi in abito lungo e scollato con ambizioni da diva, illumina Tomorrow Is My Turn, il titolo è una canzone di Charles Aznavour,  un disco elegante e affascinante in cui la bella cantante supportata da un team di musicisti attenti a non prevaricarla passa attraverso il soul, il country, il blues, canzoni d'amore drammatiche e struggenti, con passo felpato e modi di classe. Forse è un pochino laccata l' interpretazione, dove si vorrebbe più spontaneità ed un lasciarsi andare oltre la perfezione stilistica ma basta la sentita versione di Sugaree di Elizabeth Cotten per consigliarne l'acquisto. Nessuna perfezione ma molta urgenza nei lavori di Jesse Malin, enfant prodige del milieu newyorchese che sembrava ormai sfiorito ed invece nel 2015 ha ritrovato la verve dei giorni migliori, quando era benedetto dall'amico Ryan Adams. Due dischi in un anno, New York Before The War e Outsiders. Ho preferito il primo per la sua varietà, ballate col pianoforte e spigolature elettriche, chitarre grondanti febbre rock  e l'aria notturna di quella New York che negli anni ottanta faceva sognare e adesso la si ritrova solo nelle canzoni di questo troubadour col chiodo di pelle e le All Star.


Se nel 2013 Boz Scaggs  con Memphis aveva realizzato uno dei suoi dischi migliori ricreando l'atmosfera delle storiche registrazioni di Al Green per Willie Mitchell e la Hi-Tone, aggiungendovi alcune chicche assolute come Rainy Night In Georgia di Tony Joe White e rispolverando due canzoni di Mink DeVille, Mixed Up Shook Up Girl e Cadillac Walk, due anni dopo si ripete con A Fool To Care. Insieme al batterista- produttore Steve Jordan  cui si sono aggiunti Willie Weeks al basso, Ray Parker Jr.  con la chitarra e Jim Cox alle tastiere, ha registrato il disco al Blackbird Studio di Nashville addentrandosi nel profondo sud degli Stati Uniti e traendo ispirazione per la scelta delle canzoni dai suoni del Texas, di New Orleans e dell' Oklahoma, oltre che di San Francisco,  luoghi che hanno avuto un ruolo importantissimo nello sviluppo della sua sensibilità musicale. Da splendido gourmet quale è non si è limitato agli standard ma ha scovato classici nascosti rimettendoli in circolo vestiti a nuovo, arricchendoli della sua bravura e maturità d'interprete, della sua voce calda e rotonda e di una strumentazione tanto parca e misurata quanto elegante e moody. A Fool To Care è un disco di blue-eyed soul rilassato ed estremamente piacevole. Steve Jordan sta dietro anche al terzo disco solista di sua eminenza Mr.Riff ovvero Keith Richards, il quale con Crosseyed Heart   dopo venti tre anni dal suo precedente lavoro  asseconda la propria voglia di musica in libertà, senza pressioni, scadenze, limiti, doveri. Senza Mick Jagger. Una  pausa di relax, nessun intralcio coi piani dei Rolling Stones visto che in questi giorni sono tornati on the road, piuttosto sfruttare i momenti morti per suonare con amici di vecchi data una serie di canzoni che potrebbero, sparse, stare benissimo  nei dischi della famosa band se non fosse che i musicisti che lo circondano sono diversi. A molti il disco non è piaciuto, liquidandolo sbrigativamente, quando magari gli stessi avevano parlato bene di Talk Is Cheap, la sua prima registrazione solista. Non si capisce il metro di giudizio, Crosseyed Heart  ha molte analogie con quel disco, l'amore per il soul ed il sound di Memphis, il blues sfilacciato e il rock n'roll da strada. il reggae e le ballate dondolanti, bellissima quella, Illusion, con Norah Jones. Un disco divertente e di basso profilo, anche di cuore, come nello stile dell'autore. Non un disco dei Rolling Stones, e nemmeno di Mick Jagger.
 

Nonostante non tutto funzioni alla perfezione non mi è dispiaciuto nemmeno il nuovo lavoro del più promettente chitarrista di rock-blues uscito negli ultimi anni, ovvero  Gary Clark Jr. Dopo il Live  del 2014 devastante apologia di rock e blues portati in lidi su cui solo gli Dei della chitarra, in primis Hendrix, avevano camminato,  il texano  con The Story of Sonny Boy Slim  ha tradotto una delle sue affermazioni "  ascolto tutto e voglio suonare ogni cosa".  Ecco quindi la diversità tra il Gary Clark Jr. del palco e quello dello studio, il primo facilmente accessibile a chi ama le tinte forti e i fumi sulfurei del blues e del rock, comprese le sue divagazioni psichedeliche e spaziali, il secondo più complesso ed estroverso, non sempre digerito dai puristi perché disposto ad abbracciare funky e jazz-rock, hip-hop e soul,  Smokey Robinson e Sly and Family Stone, Marvin Gaye e Jackson 5, passando per i Parliament Funkadelic, Miles Davis, Freddie King, il rap di Tupac,  e naturalmente Hendrix. Un bel casino direte voi, e così è The Story of  Sonny Boy Slim  titolo che trae ispirazione metà dalle radici southern dell'artista e dai musicisti blues che lo hanno influenzato, metà dalla sua partecipazione come attore al film di John Sayles del 2007 Honeydripper , la storia di Sonny un giovane musicista che trasforma il blues ed il R&B in rock n' roll. Forse è questo l'intento del suo nuovo disco in studio, portare i fans cresciuti a base di blues tradizionale verso destinazioni e territori diversi, oltre i confini di quello che ci si aspetta da un chitarrista cresciuto suonando all'Antone's, il celebre club di Austin, assieme a Jimmie Vaughan, Hubert Sumlin e Pinetop Perkins. Un percorso impegnativo e ambizioso che rischia di deludere coloro che amano la sua prorompente carica live e i toni più classici del rock-blues, senza magari avere come contropartita l'acquisizione di un pubblico disponibile agli esperimenti e alle modernità. Ma al di là di certe concessioni funk, il suo nuovo lavoro è interessante e lo ascolto ancora a diversi mesi dalla sua uscita.
 

 

Più spartano e misurato l'ultimo disco, nel senso che è passato a miglior vita, di Pops Staples il patriarca di una delle più celebri family band americane di gospel, soul, pop, R&B, di cui è recentemente uscito l'appetitoso box  Faith & Grace che documenta i migliori anni della loro attività tra il 1953 e il 1976.  Pops Staples è morto nel 2000, questo Don't Lose This raccoglie le sue ultime registrazioni effettuate nel 1999 e poi portate a termine dalla figlia Mavis con la collaborazione di Jeff Tweedy di Wilco. Un disco bellissimo, sofferto e commovente ma anche solare e rilassato, illuminato dalla singolare voce "abbandonata" di Pops Staples e dal suo stile chitarristico scarno, che ingloba blues, gospel e soul con una delicatezza e scioltezza senza eguali. Magnifica la versione di Gotta Serve Somebody di Dylan. Segnalazione anche per  il Frankie Lee di American Dreamer,  outsider che ha vagabondato per mezza America prima di cantare di gente del nord, operai del Minnesota e contadini del Nord Dakota, scandinavi arrivati dal nulla col nulla che si sono ritagliati un posto dove vivere, storie ordinarie e amori complicati, con una voce e un songwriting  che intrecciano il primo Joe Henry con Lucinda Williams,  Freedie Johnston con Ron Sexsmith. Nulla di eccezionale ma un disco con ballate e canzoni che scaldano il cuore, ascoltatevi Where Do We Belong e mi direte. Ben più rovente il Neil Young and Blue Note Cafè miglior live dell'anno dopo quello dei Drive Blue Truckers per un performance risalenti agli anni 1987/88 all'insegna di un notturno rhythm and blues con copiosa sezione di fiati. Nessun titolo conosciuto tranne quelli risalenti all'album This Note's For You , una resa R&B di On The Way Home dei Buffalo Springfield  ed una epica versione di Tonight's The Night. Unica nota dolente la qualità audio, si sentono bene i fiati all'unisono in alcuni momenti quando intervengono gli assoli dei singoli il suono è lontano. Menzione particolare per una delle canzoni dell'anno, Forbidden Nights  di Darlene Love dal debordante album Introducing D.L prodotto da Steven Van Zandt. Scritta da Elvis Costello e cantata come se le Ronettes riempissero ancora l'etere, è una canzone corale che sprizza gioia e buon umore col sound dei migliori giorni di Asbury Park, quelli di The River per intenderci.


 

Per ultimo gli italiani, tra quelli che ho ascoltato il premio va a Sangue e Cenere  dei Gang per la coerenza del linguaggio e la scarna bellezza di un folk che riesce a stare al passo coi tempi senza vendersi e truccarsi. Bella anche la copertina, una rivisitazione italica dei Basement Tapes.  Puro divertimento con Down The Line della Gnola Blues Band ovvero come rimanere dei bluesmen senza per forza di cosa suonare le dodici battute. Premio alla carriera a Graziano Romani per il suo Vivo/Live , due CD che riassumono le diverse facce di una avventura musicale divisa tra Rocking Chairs, dischi solisti al calore del soul, canzone italiana e cover. Note positive anche per Paolo Bonfanti e il suo Back Home Alive altro bluesman con la vista lunga che non si accontenta degli standard ma occhieggia ad un roots-rock che sa di Blasters e Los Lobos, e per i pesaresi  Cheap Wine il cui secondo album dal vivo, Mary and The fairy, basato su titoli meno noti del loro ricco repertorio evidenzia  un sound che è ormai un marchio, qui bilanciato tra atmosfere notturne ed underground e le coreografie barocche e classicheggianti create dalle tastiere  di Alessio Raffaelli.

Tra i debuttanti, o quasi, mi va di segnalare Rough Man di Frank Get un rocker di Trieste con passate esperienze nel blues. Il suo è un disco forse troppo lungo, che non ha un focus preciso ma è  un calderone vivo e pulsante zeppo di tutti i suoi amori e influenze musicali, tra rock, blues, ballate, folk, roots, southern rock e una calda versione di Mixed Up Shook Up Girl di Mink DeVille, cosa che gli fa onore. Adesso è in giro con la sua band a presentarlo,  combo di cui fa parte saltuariamente il bravo chitarrista Anthony Basso dei disciolti W.I.N.D. Se li trovate vicino casa a suonare non fateveli scappare, ne vale la pena.

Buon Anno.

MAURO ZAMBELLINI     3 gennaio 2016
















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