venerdì 25 luglio 2014

GRAHAM PARKER AND THE RUMOUR


Normalmente le guide turistiche di Londra non parlano mai di Islington, un quartiere nella parte nord della città che nonostante l'insediamento di piccoli ristoranti trendy e negozietti alla moda mantiene quel carattere autenticamente piccolo-borghese se non addirittura popolare che l'ha caratterizzata nel tempo. Un quartiere non stereotipato con stradine e casette con giardino, una atmosfera rilassante, qualche negozio di dischi usati, una zona (Camden Passage) di botteghe di antiquariato, una chiesa sconsacrata, la Union Chapel, dove dentro potete trovare volantini che annunciano concerti rock, bere un caffè e mangiare una fette di torta e dove spesso avvengono "eventi" sia di carattere musicale che teatrale. Proprio a Islington sorge l'Hope and Anchor Pub, un locale resistito al tempo che negli anni settanta fu il teatro della scena pub-rock e del nascente punk. Famoso un doppio album del 1978 Hope and Anchor Front Row Festival  con tutte le band emergenti del periodo: Wilko Johnson Band, Stranglers, Tyla Gang, Pirates, Xtc, Dire Straits, 999, Steve Gibbons Band. Sopra quel pub, Dave Robinson a metà degli anni settanta aprì un piccolo studio di registrazione con cui lanciare le nuove band, insieme a Jake Riviera di lì a poco avrebbe fondato la Stiff Records, una delle etichette madri della new-wave inglese. Venne in contatto con un tale Graham Parker di Cumberly Surrey che proprio in quei giorni aveva messo in piedi una band, The Rumour, con cui tentare il grande salto nel mondo del rock. Era il 1975 e Parker cercava un contratto discografico,  Robinson che era il produttore di Brinsley Schwartz temporeggiò quel tanto e perse l'occasione propizia, così Between You and Me,  una struggente love song ancor oggi in grado di far piangere, arrivò nelle mani di Charlie Gillett allora conduttore di  uno show radiofonico alla BBC. Nigle Grainge, A&R della Vertigo, capì che non c'era tempo da perdere e portò in studio Parker con la band affidandoli al produttore Nick Lowe. Ne venne fuori Howlin' Wind ovvero una bomba, soul della periferia londinese con un tratto dylaniano (Howlin' Wind) mischiato col rockabilly (Back To Schooldays), il ritmo reggae di Brixton (Hey Lord Don't Ask Me Question) sciolto nei Rolling Stones (Soul Shoes), lo swing di una sezione R&B (White Honey) regalato ad una voce che evoca Van Morrison. Difficile fare meglio, lo chiamarono pub-rock ma è The Wild, The Innocent and The E-Street Shuffle   sull'altra sponda dell'Atlantico.  E' l'inizio di una storia di rock inglese poco conosciuta ma ricca di emozioni e romantica, una delle pagine del rock anni settanta a torto reputato minore, oggi ricordata da uno splendido doppio CD The Very Best of Graham Parker and The Rumour  venduto allo stracciato prezzo di 12 euro e cinquanta.

Premesso che Graham Parker avrebbe bisogno di un box di almeno 5 Cd perché venga riassunta la sua intera carriera, non tutta high come agli esordi,  ma The Very Best Of    sintetizza con una non banale sequenza (al diavolo l'ordine cronologico) di 35 tracce il periodo Vertigo dell'artista, ovvero i suoi esordi ed il suo periodo più creativo. Non ci sono bonus tracks, tracce dimenticate, scarti, alternative take, ma solo il necessario, ciò che conta per illuminare l'inizio di una grande avventura, sottolineare la grandezza dell'artista come cantante, autore e performer e che razza di band avesse alle spalle.  Qui sono sintetizzate le perle di Howlin' Wind  disco d'esordio del 1976 e di Stick To Me  dell'anno seguente, entrambi prodotti da Nick Lowe, del secondo album Heat Treatment , del live The Parkerilla (1978) e di Squeezin' Out Sparks  il disco prodotto da Jack Nitzsche che aprì il mercato americano a Parker. Le rarità, se così si possono chiamare, si riferiscono a Hold Back The Night  tratta dall'Ep del 77 The Pink Parker,  alla versione promozionale di Mercury Poisoning, alle B side I Want You Back e I'm Gonna Use It Now.  Più che un Very Best Of  una piccola enciclopedia del primo Graham Parker con una band di prim'ordine quali i Rumour ovvero la crema di quel british rock che in quella metà degli anni settanta trovava luce in mezzo ai disastri del glam e del progressive senza confondersi col punk. Gente tosta che aveva imparato dalla musica inglese come si cantano le melodie che sollevano l'esistenza e dagli americani come si usano le chitarre e la sezione ritmica. Brinsley Schwartz un chitarrista nelle cui dita scorreva un fiume di rock n'roll e country così come li aveva ridisegnati Dave Edmunds, Bob Andrews un tastierista che sembrava arrivato da Memphis, Martin Belmont l'altro guitar man esposto alle nervose pennate del rock che si suonava nei pub a nord di Londra come l'Hope and Anchor, Steve Goulding e Andrew Bodnar la sezione ritmica che nessuno possedeva  in quegli anni in Inghilterra, a meno di non chiamarsi Stones o Faces. E naturalmente lui, Graham Parker, uno che era stato flashato dalla debordante comunicativa di Dr.Feelgood in uno show a Guidford ma nel cui cuore battevano Bob Dylan, Van Morrison, i Rolling Stones, Bob Marley, il soul della Stax.

Dopo il folgorante Howlin' Wind  arrivò Heat Treatment , altrettanto bello ma meno visibile perché manca Nick Lowe alla consolle (ad eccezione di un brano) e le canzoni non hanno lo stesso appeal dell'esordio. The Very Best Of   offre però la possibilità di recuperare gemme come Black Honey  e Fool's Gold  diventati poi  classici del suo repertorio, Hotel Chambermaid poi coperta da Rod Stewart ed una giamaicana Something You're Goin' Thru  in linea col mood del Clapton di 461 Ocean Boulevard.  Per il terzo disco, il memorabile Stick To Me , le cose si complicarono, il produttore Bob Potter avrebbe voluto orchestrazioni ed un suono “panoramico” ma in realtà niente andò come doveva, i nastri furono abbandonati nello studio finché dieci giorni prima di partire per un tour in Scandinavia, Brinsley Schwartz prese la decisione di mandare a quel paese Potter e ri-registrare il disco con Nick Lowe. La strepitosa title track testimonia come nel rock essere sotto pressione fa bene. Stick To Me è un disco formidabile, teso, nervoso, ricco di contaminazioni,  con almeno cinque pezzi da novanta: l'epica Watch The Moon Come Down, le negroidi  Thunder and Rain  e  I'm Gonna Tear Your Playhouse Down  quasi un pezzo alla Otis Redding, la convulsa e punk The New York Shuffle  ed una The Heat In Harlem che mischia indie occidentali e sobborghi neri americani con un pathos irresistibile, due brani quest'ultimi che dicono di come l'artista fosse vicino all'universo musicale americano. Non a caso il seguente disco in studio fu un successo negli States, quello che non ottenne il newyorchese Mink DeVille con Jack Nitzsche come produttore lo ottenne l'inglese Graham Parker,  artista non così distante dalla musica di Willy. Squeezing Out Sparks  è il perfetto disco new-wave di taglio americano, forse troppo appiattito sui gusti a stelle strisce e senza quella fuliggine londinese delle precedenti registrazioni di Parker. Nulla è cambiato, la band è la stessa, le canzoni funzionano ma forse c'è  troppa pulizia. Parere personale, a Squeezing  preferisco Howlin' Wind e Stick To Me  ma è come disquisire se è più bella Charlize Theron o Scarlett Johansson. Si, perché quando parte Discovering Japan o arriva il ritmo reggae di Protection, l'invettiva contro la Disco di Saturday Night Is Dead,  la preghiera soul di Passion Is No Ordinary Word  e You Can't Be Too Strong col suo tono intimista e acustico fa a fette il vostro cuore,  le differenze cavillose si sciolgono come neve al sole. Sono cinque delle nove tracce di Squeezing  riportate in questo imperdibile The Very Best Of,  solo un doppio Cd ma sufficiente a dimostrare che  Graham Parker and The Rumour furono il set più emozionante (coi Clash) che il rock inglese abbia avuto nella seconda metà degli anni settanta,  l'essenza della musica dell'anima trasportata sulle rive del Tamigi. Ancora oggi indispensabile.

 

MAURO  ZAMBELLINI

giovedì 17 luglio 2014

JOHNNY WINTER





    Adesso che se n'è andato sale una tremenda nostalgia. I suoi problemi di salute erano noti ma il fatto che negli ultimi due anni fosse tornato a suonare da noi sembrava il sereno dopo la tempesta. Lo vidi l'ultima volta nel febbraio del 2012 a Cologne Bresciano, salì sul palco un po' traballante, si sedette sulla sedia,  controllò  la chitarra e partì in quinta per un'ora e dieci minuti di ribollente rock-blues fugando ogni dubbio e confermandosi uno dei grandi maestri del genere. T-shirt nera, pantaloni scuri, cappello western calato sugli occhi, magro e pallido come un fantasma, Johnny Winter non si risparmiò ed infilò uno show rimastomi nel cuore. Un rock-blues secco, asciutto, concentrato, potente, una sintesi senza trucchi, fronzoli e divagazioni di radici e feeling, una cotoletta cotta al punto giusto con patate di contorno. Niente di più niente di meno. Quando, dopo un'ora di blues sparato a mille, Johnny Winter finalmente si alzò dallo sgabello ed il microfono venne posizionato alto si capì che si era alla fine del concerto, Johnny Winter aveva ormai un'autonomia di poco più di un'ora ma in quell'ora diede tutto al meglio, un maestro. L'albino sembrava un vecchio sciamano di qualche tribù del deserto, impugnò la Gibson Firebird  e con la slide fece delle memorabili Dust My Broom e Highway 61 come bis.

       

Nato nel 1944, Johnny Winter è stato l'archetipo del guitar hero un po' maledetto ed il primo dei chitarristi contemporanei a emergere dal Texas, sebbene i suoi natali siano nel Mississippi. E'stato una delle figure cruciali del rock-blues americano degli anni settanta associando la lezione di Lightnin' Hopkins e T-Bone Walker al tagliente suono slide di Elmore James e alle corde tirate allo spasimo di Albert King. Dotato di una voce aspra e urlata che deve molto a quella di Blind Lemon Jefferson, Johnny Winter ha saputo sposare la purezza del blues con i pruriti elettrici e le durezze del rock divenendo, tra gli anni sessanta e la decade successiva, estremamente popolare tra il pubblico bianco dei mega raduni pop. Tanti i dischi meritevoli d'acquisto della sua lunga discografia, adesso che se ne è andato il  ricordo va all'incisione più vicina,il dignitosissimo Roots del 2011. 



Chi volesse invece avere una sintesi della sua avventura può ricorrere  a The Essential, pubblicato  lo scorso anno, due CD che fotografano la sua produzione dall'esordio su Columbia nel 1969 con l'omonimo Johnny Winter fino a Raisin Cain' del 1980, ovvero il suo periodo migliore, attraversando tutti i suoi album più riusciti ovvero Second Winter, Johnny Winter And, Saints and Sinners  e Nothin' But The Blues. Da questi dischi arrivano chicche come Dallas, prima rivelazione dello Winter con la slide, seguita dall'altra perla in termini di slide quale TV Mama, da una Rock and Roll Hoochie Koo che fonde il blues di Winter con l'hard rock di Rick Derringer e Lou Reed, dalla scrittura tradizionale di Leland Mississippi Blues, sua città natale  al r&B con tanto di fiati di Miss Ann, dalla melodica  I'll Drown In My Tears alla sudista  Prodigal Son (sembra di sentire i migliori Lynyrd Skynyrd), dal Delta di Sweet Papa John fino a quella che rimane la sua cover più esplosiva, una rivisitazione di Highway 61 che fa letteralmente a fette quella di Bob Dylan. Tanti i brani estratti dagli album citati, ai quali vanno aggiunti White, Hot & Blues del 1978 e John Dawson Winter III del 1974.  A coronare l' eloquente The Essential, un modo piuttosto sbrigativo ma quanto mai efficace di coprire i suoi anni migliori, ci sono i brani live, più di un terzo delle 34 tracce che compongono il doppio CD. Sono estratti dai formidabili Live at Fillmore East 10/3/70  (una Good Morning Little Schoolgirl alla velocità della luce), da Johnny Winter And/Live ( l'epica It's My Own Fault e la scatenata Jumpin' Jack Flash), dal devastante Still Alive and Well, da Captured Live del 1976, da Together (una funkissima Harlem Shuffle con Edgar Winter da relegare in soffitta la versione dei Rolling Stones) e da The Woodstock Experience ( tra cui una splendida Mean Town Blues), album quest'ultimo pubblicato solo nel 2009.
Una saggia decisione quella di documentare il Johnny Winter live perché sotto i riflettori l'albino maledetto ha dato il meglio di sé, il palco è la sua vera casa ed il suo blues-rock ha trovato modo di rivelarsi in riff acrobatici, in serratissimi giochi di slide, in esplosioni di energia pura, in torrenziali flussi di gioia ed eccitazione ma anche in acuti di dolore e sofferenza come solo un vero bluesman può esprimere. Johnny Winter ha vissuto il blues nella sua essenza più profonda, quello che il texano ha imparato dai suoi maestri non sono stati gli accordi e lo stile ma il feeling e la spontaneità.  Johnny Winter è stato uno grande bluesman bianco, uno dei primi a capire cosa volevano le masse del rock dal blues. Sia pace all'anima sua. 

MAURO ZAMBELLINI  

venerdì 4 luglio 2014

JOHN MELLENCAMP LIVE AT TOWN HALL



 C'è stato un momento che mi sono sentito preso per i fondelli da John Mellencamp nonostante fossi un suo fan dal lontano 1980, anno in cui lo scoprii con l'album Nothin' Matters and What If It Did  quando ancora si faceva chiamare John Cougar. E' successo a Vigevano qualche anno fa durante  un concerto in cui  mise in luce i suoi limiti caratteriali facendo aspettare per due ore, nel caldo e tra le zanzare,  il suo pubblico italiano (era la prima volta che calava da noi) con un film sul making of del suo nuovo disco, una scelta come minimo supponente e poco logica visto che il Dvd lo si sarebbe poi potuto vedere comodamente sul divano di casa. Anche il concerto non fu all'altezza delle mie aspettative, una parte iniziale rootsy speculare al disco in promozione No Better Than This   e poi una seconda parte all'insegna di un chiassoso rock con tanto di basso funky e chitarre metalliche. Non contento di ciò riuscì ad annullare il seguente concerto di Udine per presunte magre prevendite, lasciando attoniti i suoi estimatori del nord-est che lo aspettavano con ansia e con già il biglietto in mano. Decisi che con Mellemcamp per un po' di tempo avrei chiuso, tengo molto al rispetto che gli artisti nutrono verso il loro pubblico, per tale motivo ho una stima sovraumana di Springsteen e dei Pearl Jam e poca simpatia per Van Morrison e Ry Cooder, al di là della loro musica. Poi, come in tutte le storie d'amore, il tempo ha lenito i contrasti, le cose belle hanno preso il sopravvento sui pessimi ricordi e così oggi mi ritrovo a ri-parlar bene di un disco di Mellencamp. Scusatemi, nessuno è perfetto ed una mia caratteristica è quella di non tenere rancori, così vale la pena raccontare come è nato questo disco dal vivo, in uscita a fine luglio.  Nel 2003 l'album Trouble No More  impose una sterzata all'avventura artistica di John Mellencamp. Il suo disco precedente, Cuttin' Heads, aveva lasciato un po' l'amaro in bocca a quanti lo consideravano il miglior rappresentante dell'heartland rock dopo il graduale allontanamento dalle scene di Bob Seger, una sorta di risposta midwestern  a Tom Petty da una parte e Bruce Springsteen dall'altra. Vero è che il duetto con la cantante India Arie in Peaceful World , il singolo che aveva preceduto l'uscita dell'album,  aveva confortato  gli ascoltatori delle radio americane nei giorni immediatamente successivi all'attacco alle torri gemelle, ma musicalmente parlando era poca cosa rispetto alle asprezze rock e alle ballate con  cui il rocker dell'Indiana era entrato nei cuori degli appassionati.  Singolare il fatto che per riportare Mellencamp sulla sua strada maestra ci volle un disco non di sue canzoni ma di quelle canzoni che avevano formato lui come artista e i suoi fan come ascoltatori. Un patrimonio di canzoni estratte dagli archivi del folk, del blues e della musica popolare che avevano come comune denominatore una visione tollerante dell'America,  la varietà delle sue radici popolari e delle sue origini, il senso di un sogno comune costruito con la solidarietà e la collaborazione,  anche l'orgoglio di essere in qualche momento  "contro" e dall'altra parte della strada se fosse stato necessario dimostrare il dissenso ad una politica efferata, come lo era nei giorni del conflitto in Iraq. Come dichiarò lo stesso Mellencamp a quel tempo " quelle canzoni costituivano quel patrimonio della musica americana  con cui sono cresciuto, quella eredità che le persone intendono quando dicono di sentirsi felici di essere americani, non la politica estera americana ma la musica americana".

Dal coguaro ribelle ed irascibile degli anni di gioventù, ai doveri di padre e alle malinconie dell'uomo adulto dell'età di mezzo, fino all'artista coscientemente critico degli anni duemila, il cammino di John Mellencamp nel rock e nella vita ebbe  con Trouble No More  un sostanziale riposizionamento,  una naturale evoluzione, una ulteriore maturazione intellettuale e stilistica che permise poi quel fenomenale quadro d'assieme che è il box On The Rural Route.  Naturalmente in Trouble No More  c'era il passato dell'America ovvero Woody Guthrie, Robert Johnson, Son House, Memphis Minnie, Willie Dixon ma la verve di gagliardo folk n' roll con cui Mellencamp e la sua band interpretavano quel materiale, l'asciuttezza delle versioni, il preservare lo spirito piuttosto che lo stile,  faceva sì che il disco risuonasse fresco, affatto nostalgico e fosse il naturale esito della musica di Mellencamp alla luce di una consapevolezza sociale mai così schietta. Trouble No More  venne registrato in giorni di neve e di freddo polare nel febbraio del 2003 al Belmont Mall Studio a Nashville nell'Indiana, poche miglia da Bloomington città natale di Mellencamp e portato in tour, mesi dopo, nella calura di fine luglio alla Royce Hall dell'UCLA di Los Angeles e alla Town Hall di New York. La scelta di una università e della venue newyorchese non furono dettate dal caso ma del tutto coerenti coi temi anti-governativi presenti nel disco, in particolare contro Bush e contro la politica estera americana, in quel momento impaludata nella guerra in' Iraq. La Town Hall di NYC è una location storica per il folk, il blues, il jazz e la canzone di protesta, di fatto una sala concerti anti-establishment in antitesi alla Carnegie Hall, un luogo dove sono passati Leadbelly, Nina Simone, Pete Seeger, Odetta e i grandi del jazz.  Lì,  John Mellencamp con la band con cui aveva registrato Trouble No More ovvero Mike Wanchic e Andy York alle chitarre, Miriam Sturm al violino, Dane Clark alla batteria, John Gunnell al basso e Michael Ramos alle tastiere, portò il nuovo disco in un concerto oggi ricordato da Live at Town Hall - July 31 2003.  Un live splendido che ripropone l'umore ed il sound countrypolitan  del disco che lo ha generato, un sound ed una performance che mostrano un artista concentrato, motivato, impegnato a ricreare storie di ramblers, fuorilegge, tempi duri e delusioni con la compostezza di un folksinger che ha sostituito la chitarra acustica con una rock n'roll band. Mellencamp e i suoi suonano un roots-rock permeato di folk con la stringatezza del punk e l'immediatezza del blues, non gli interessa imitare  gli stili del passato ma adattarne lo spirito alle nuove rabbie, al nuovo urlo di dolore, alla consapevolezza di un mondo cambiato ma sempre identico nei soprusi, nelle prepotenze, nelle ingiustizie, dove la povera gente continua a subire e i potenti a dettare leggi e menzogne. Mellencamp  veste i panni di un moderno hobo rurale e metropolitano, polemico e non allineato, adattando la lezione di Woody Guthrie e Leadbelly al nuovo ordine mondiale. E la performance dal vivo alla Town Hall non fa che esaltare e dare più forza ai temi e alle canzoni di Trouble No More  che qui suonano ancor più crude e drammatiche nei loro significati, non sono le copie delle antecedenti ma sono animate da quell'ardore rock n'roll che Mellencamp ha sempre avuto nel sangue.  Il suono è quello che fa da collante ai dischi di On The Rural Route  ma ancora più rabbioso, teso, down-home, ricco ugualmente di sfumature, dettagli, sovrapposizione di suoni acustici ed elettrici, drumming misurato e violini evocativi, con la voce in primo piano ruvida, caustica, accusatoria.  L'eccitazione del pubblico è palpabile e non può essere diversamente perché qui c'è una delle migliori lezione sulle origini del rock n'roll americano. Mellencamp va alla fonte, l'agra versione di Stones In My Passway  di Robert Johnson con una slide che morde come un cane randagio, cantata con fervore fatalistico, il singhiozzo lamentoso di Death Letter di Son House, il viraggio celtic-folk di Joliet Bound di Memphis Minnie, la fusione di gospel e blues in John The Revelator  e l'illuminante intreccio di violino e chitarre in Down In The Bottom scritta da Willie Dixon per Howlin' Wolf,  iniettano la polvere del Delta negli ingranaggi del vecchio blues così da renderlo ancor più lacerato, terreo, autentico, moderno. Da parte loro la rilettura di Johnny Hart  di Woody Guthrie, addirittura commovente, di To Washington originario brano della Carter Family poi arrivato in mano a Woody Guthrie ed infine rivisitata nel testo da Mellencamp per commentare sarcasticamente l'elezione di Bush/Cheney nel 2000, l'altro traditional Diamond Joe e la spiritata versione di Lafayette di Lucinda Williams coprono la parte più specificatamente folk di questo viaggio nelle roots della democrazia musicale americana, lasciando alla intima e melodica resa di Baltimore Oriole , una delle vette del disco con quell' intreccio di chitarra acustica, violino e fisarmonica e alla corale Teardrops Will Fall, pescato dagli archivi dei gruppi vocali degli anni cinquanta, il compito di ricordare da dove provengono le melodie e le armonie nella musica di Mellencamp. Proprio in Teardrops Will Fall, come pure in Diamond Joe e in Paper In Fire, uno dei tre brani estratti dal proprio repertorio e riproposti dal vivo, Mellencamp rimette in circolo quell' intreccio di radici celtiche, folk degli Appalachi e armonie swinganti che furono il prelibato distillato di The Lonesome Jubilee  mentre ancora da più lontano arrivano  la polemica Pink House anche questa messa a bagno in The Lonesome Jubilee  ed una rallentata, spettrale, emozionante rivisitazione di Small Town.

In tutto questo guardarsi alle spalle per sopravvivere al presente non poteva mancare colui che questo viaggio lo aveva percorso quarant'anni prima con lucida lungimiranza e poca voglia di indicare la strada, ovvero Dylan,  uno dei maestri del piccolo bastardo dell'Indiana. Highway 61 Revisited  è sangue, sudore e polvere da sparo sulle strade di un'America che non ha ancora finito di guardarsi dentro. Live At Town Hall  è il primo ed unico disco dal vivo ufficiale (a parte il mini live Life Death Live and Freedom)  di John Mellencamp e pur non essendo l'apoteosi del rock spettacolare e romantico che ci si aspetta da un concerto, basta e avanza per scaldare il cuore e tenere lucida la mente.

MAURO ZAMBELLINI