martedì 30 dicembre 2014

MY BEST OF 2014

 
Finalmente posso iniziare diversamente questo  MY BEST OF THE YEAR, contrariamente agli ultimi anni il 2014 ha regalato (si fa per dire) ottimi dischi e splendidi concerti per quanto riguarda il rock n'roll più o meno classic. Ad essere precisi di buoni concerti ne avevo visti anche l'anno precedente, uno su tutti Neil Young & Crazy Horse a Locarno, ma pure nell'anno appena trascorso gli eventi da ricordare sono stati diversi. Neil Young è ritornato ma il suo concerto di Barolo è stato troppo inficiato dalla disorganizzazione di chi lo ha allestito per rimanere nella mia memoria, cosa invece che è successo per tre concerti "maggiori", di cui ho già scritto su questo blog. Innanzitutto lo show dei Drive By Truckers  a maggio al Shepherd's Bush Empire di Londra.


 
 
Indubbiamente il luogo conta, eccome, essere a Londra in uno dei teatri che ha visto passare parte della storia del rock, aiuta all'enfasi e alla percezione, oltre a predisporre ad un vero sentire, ma al di là del fattore ambientale, ciò a cui ho assistito ha surclassato ogni mia più rosea aspettativa. I DBT di English Oceans  sono una band completamente trasformata, rispetto alla furia punk del loro show milanese di qualche anno prima alla Salumeria della Musica (periodo Go-Go Boots) e rispetto agli orizzonti alternative country di dischi come Live from Austin, Tx . Il fatto che le parti vocali siano equamente divise tra Mike Cooley, chitarra solista, con la sua voce monocorde e lamentosa, e Patterson Hood  col suo tono disperato e sofferente, amplia il range espressivo della band, aggiunge completezza e varietà al set, rifinito con grande maestria dallo squisito lavoro di Jay Gonzalez, eclettico polistrumentista che spazia tra Hammond, piano elettrico e chitarra Gibson SG, da Brad Morgan, il batterista con barba lunga da mormone che picchia senza sbavare e senza platealità, e dal nuovo bassista Matt Patton (faceva parte dei Dexateens), alto, secco, jeans e stivaletti, con capelli a caschetto da beat dei sixties e volto sempre sorridente, il quale e ha portato una ventata di freschezza nella band. Adesso nello show dei DBT non c'è solo urgenza punk e malinconia country ma ballate spezzacuori alla Tom Petty, polverose cavalcate elettriche, l'esempio mirabile è Grand Canyon,  dove dentro c'è tutta l'America delle strade secondarie del rock, l'eco western e le rasoiate rabbiose di chi si sta giocando la vita con la musica, il mito della strada filtrato da un bizzarro fatalismo sudista, oltre ai ganci cattivi degli Stones e ad un certo romanticismo springsteeniano. Una band coi fiocchi, eccitante ed epica, a cui il nuovo disco English Oceans  ha ridato fiducia ossigenato muscoli, nervi e cuore. Del secondo concerto ho già detto oltre il dovuto, i Rolling Stones  di Zurigo sono stati brillanti come da tempo non li sentivo e non li vedevo, nulla a che vedere con le ultime due loro calate a San Siro. Passi anche la scaletta karaoke da greatest hits ma chi si può premettere di avere ancora così tanta energia da riproporle 50 anni dopo con tale entusiasmo, infilando una Satisfaction così devastante da lasciare senza parole per tanta rabbia, eccitazione e febbre elettrica. E non è stato il solo pezzo memorabile, si aggiunga poi lo spettacolo, il palco, il pubblico, l'ironia ed un Mick Jagger così assatanato e avrete il rock n'roll show che tutto l'Universo ci invidia. Il terzo concerto che mi ha impressionato è  quello dei Counting Crows all'Alcatraz di Milano il 23 novembre scorso. Ci sono momenti in cui il rock è ancora capace di regalare la felicità, cosa piuttosto rara di questi tempi, quella sensazione che solitamente si prova quando si è innamorati, beh Adam Duritz e compagni quella sera ci sono riusciti e la sensazione era tangibile, era sullo sguardo dei tanti che hanno assistito a quel concerto. Magia del rock n'roll e realtà di una band che maneggia la materia con grazia e cattiveria e di un cantante magnetico, carismatico, istrionico, che si fa rapire e coinvolgere dalle sue canzoni come lo stesso pubblico che lo ascolta, travolto dalle note e dai versi in un viaggio dove lui recita una bohéme che immancabilmente finisce col trafiggere il suo e il nostro cuore. I Counting Crows sono una band da difendere con tutte le forze, non è facile essere classici e moderni nello stesso tempo, e tantomeno unire dolcezza e asprezza con la stessa credibilità, fremiti pop da successo radiofonico e spigolature rock da road band, echi folk e furia grunge, bisogna possedere una chimica da grande band, cosa che i Counting Crows hanno, ultimi discendenti in ordine di tempo di quella dinastia di "orchestre" americane nata con The Band. Poco importa che il loro ultimo Somewhere Under Wonderland  non è tutto all'altezza delle loro cose migliori, ma il concerto è stato intenso, emozionante, recitato, quasi un flusso di coscienza. Ritorneranno il prossimo estate, chi non li ha visti a Milano si affretti a comprare il biglietto.
 

Passiamo ai dischi, quella che segue è la lista dei dieci titoli inviati un mese fa al Buscadero  per l'usuale poll annuale. Di molti titoli ne ho già parlato su questo blog per cui vado al sodo, l'ordine non è del tutto casuale : 1) Lucinda Williams   Down Where The Spirit Meets The  Bone  2)  Gary Clark Jr. Live  3)  Drive  By  Truckers    English  Oceans  4)  John   Hiatt  Terms of  My  Surrender  5)  John   Mellencamp  Plain Spoken  6) Wilko  Johnson/Roger Daltrey   Going Back Home  7) Tom Petty              Hypnotic  Eye  8) Hurray  For The  Riff   Raff   Small  Town  Heroes  9) Chris Cacavas/ Edward Abbiati  10) Me and The  Devil, Looking  Into  You- A Tribute to Jackson Browne.

Ce ne sono altri che avrei inserito se non mi fossi limitato a 10, il Jackson Browne di Standing In The Breach  ad esempio, ma ho scelto il tributo al suo songwriting  per via di alcune versioni assolutamente fantastiche, mi vengono in mente Fountain of Sorrow delle Indigo Girls, The Pretender di Lucinda Williams, sicuramente il personaggio rock dell'anno, Before The Deluge di Eliza Gylkison ( eccellente il suo disco solista The Nocturne Diaries),  a dimostrazione della rigogliosità positiva del 2014. Tra gli emergenti o presunti tali, mi va di ricordare il newyorchese Anthony D'Amato con The Shipwreck From The Shore,  i frizzanti e cool Lake Street Dive di Bad Self  Portraits, i rarefatti oregoniani Delines  con il notturno Colfax,  il cantautore inglese Ben Howard che con I Forget Where We Were  ha realizzato quello che il suo collega americano Ray Lamontagne aveva fatto con Till The Sun Turns Black  ovvero immergersi nelle ombre dell'animo umano con canzoni affatto lineari e consolatorie, portando in superficie un songwriting notturno, scapigliato ed introverso. In ambito più rock mi piace ricordare il disco di Rich Robinson, il fratello meno famoso dei Black Crowes, che al suo terzo disco solista, The Ceaseless Light, ha allargato gli orizzonti e allungato i tempi creando una musica in cui svolazzi chitarristici in libera uscita, leggiadre armonie col profumo dell'oceano, ballate che iniziano pigre e assonnate e poi salgono nel cosmo col suono liquido delle chitarre e delle tastiere, ricompongono quello stile anni settanta in cui si riflettono la psycho-California dell'epoca, il rock dei Rolling Stones seventies, il southern rock della golden era e le visioni fumate e rilassate di quanti ancora viaggiano con la musica. Ha fatto decisamente meglio del fratello Chris, che con Phosphorescent Harvest  ha calcato un po' la mano verso un sound alla Greateful Dead  era-Terrapine Station  perdendo freschezza e spontaneità e facendo suonare le chitarre con un timbro scintillante, troppo prog per i miei gusti. Il desiderio è di rivedere insieme di nuovo i due fratelli perché i Black Crowes erano un'altra cosa, e mi mancano.

 
 
Dello stesso girone infernale impossibile far finta di nulla davanti alla maestosità di Dark Side Of  The Mule  dei granitici Gov't Mule capaci di virare al blues e al rock americano un'opera così inglese e cult come quella dei Pink Floyd. Due dischi su tre del loro triplo CD+DVD  sono all'insegna delle canzoni della band britannica, versioni che misurano la bravura tecnica e la versatilità dei Muli (capaci di passare dai Grateful Dead ai Rolling Stones, dai Doors a Neil Young, come io passo dal primo al secondo piatto) con una rivisitazione di Wish You Were Here  semplicemente pazzesca, voce sospesa, liquid sky ed una chitarra che estrae dal blues gli arpeggi per dire la sacrosanta verità, che i Pink Floyd sono storia ma c'è chi suona meglio di loro.  Colossali. Tra i dischi inclusi nella lista del poll Buscadero ce ne sono due di cui ho parlato sono marginalmente in fbook : Hypnotic Eye  di Tom Petty e Terms of My Surrender  di John Hiatt. Il primo quando all'epoca della sua uscita, la scorsa estate ha diviso gli ascoltatori, chi lo apprezzava e chi lo liquidava come un disco secondario. Mi sono arruolato tra i primi, l'ho ascoltato una valanga di volte, forse è stato il disco che più ho sentito nell'estate affatto calda del 2014, a casa, in macchina, con amici, ovunque, mi piaceva quel suono semplice. rocknrollistico, tra beat e blues, arpeggi California style e canzoni talmente disimpegnate nel sound da fornire la soundtrack ad una decapottabile o ad una spider vecchi tempi, correndo su strade verso il mare. Niente di ché, solo il piacere semplice del rock n'roll come veniva pensato negli anni cinquanta e prima del '67. Nei mesi non ho cambiato idea, Hypnotic Eye  non è certo da annoverare tra gli imprescindibili di Tom Petty (Mojo  era più intrigante)e magari lo si dimenticherà presto, ma quanto mi ha fatto compagnia questa estate con la sua aria sbarazzina. Di tutt'altro spessore il disco di John Hiatt che in pochi hanno messo in risalto. John Hiatt è un tipo che fa dischi con regolarità da svizzero e ogni volta non delude, ma ci sono impennate e uno standard nobile. Per stare ai "tempi moderni", Mystic Pinball  del 2012 è standard nobile, Dirty Jeans and Muslide Hymns (2011) e The Open Road  ( 2010) sono impennate. Questo Terms of My Surrender , passato quasi inosservato, è sulla falsariga di quei due, se non ancora meglio, è un disco  che fa i conti con l'età dell'artista ed il tempo che sfugge, con le amarezze e le poche illusioni rimaste, è un disco di ballate che arrivano al cuore passando prima dalla mente, una sensibilità da vero storyteller, un disco in bianco e nero con qualche slide ed un po' di armoniche, il sound di una band da strade blu, la voce di un narratore amareggiato ma ancora in grado di raccontare storie in si ritrova quel grande romanzo americano che tutti vorrebbero scrivere. Un disco meno solare dei due precedenti citati, bluesato senza essere blues. Ottimo.
 

Sembra far parte di un altro anno tanto è distante ma è uscito all'alba del 2014,  il disco delusione dell'anno per il sottoscritto è stato High Hopes  di Bruce Springsteen. L'ho ascoltato a valanga appena uscito per cercare di capirlo, poi di botto basta, è rimasto lì con la polvere che gli si adagiava sopra, l'ho risentito recentemente, mi pare ancora più brutto che all'inizio, quando lo recensii con tre stelle. Adesso gliene darei due perché non è possibile che l'autore di The River  rilasci un disco simile. Mi conforta vedere che gli estimatori della prima ora, non parlo degli integralisti di cui è pieno il mondo e nel rock sono una vera falange, lo hanno dimenticato, ma di amici con cui parlo, mi confronto, scambio idee e battute. Un esempio, l'amico Blue Bottazzi, che lo paragonò a Combat Rock  dei Clash (peraltro non uno dei loro migliori lavori), non l'ha nemmeno citato nel suo Best di fine anno sul suo blog. Adesso ho letto che Springsteen ha il mal di schiena e si fermerà per un po' senza fare concerti, spero francamente che abbia il tempo per tornare a sfornare dischi con una cadenza più dilatata come un tempo, ci eviterebbe il mal di pancia di lavori così affrettati e raffazzonati come High Hopes. E adesso che Little Steven è in Norvegia a Lilyhammer, gli auguro di cercare un chitarrista che non sia Morello.
 

 

Capitolo ristampe o meglio Box Super Deluxe, qui sono dolori. Le case discografiche, con l'avvallo dei loro artisti, è bene dirlo, ci marciano e sembrano spillare soldi sempre a quegli stessi che prima comprarono il vinile, poi la prima ristampa in CD, poi la seconda rimasterizzata, poi l'Edizione Deluxe e adesso sono presi per la gola con Box eleganti, rifiniti, con album fotografici da sogno. Sanno che il fan è debole rispetto a certe proposte, è come Adamo davanti alla mela, lo vivo sulla mia carne ma ho adottato il metro che un vero appassionato è un collezionista (ovvero vuole tutto del suo artista preferito) che è bene che stia sotto sedativi. Ovvero non deve andare in fibrillazione non appena appare un nuovo Box "imperdibile". Non siamo carne da macello, abbiamo la nostra dignità e le nostre difficoltà ad arrivare a fine mese. E' ora di alzare gli scudi. Prendiamo The Basement Tapes Complete  di Bob Dylan and The Band, bell'opera, non si discute ma 100 euro per degli avanzi di cantina. Non l'avrei mai preso ma me l'hanno regalato a Natale, a caval donato non si guarda in bocca, il meglio di tutto il materiale presentato sta nell'originale doppio album The Basement Tapes  del 1975, caso mai procuratevi la versione Raw  economica di questa ristampa, doppio CD e pensateci bene prima di sborsare tanti soldi per il Complete,  a meno che non siate un collezionista allergico ai sedativi. Stesso discorso per il Box di Springsteen 1973-1984  con i primi otto dischi rimasterizzati "come si deve per la prima volta". Materiale arcinoto, senza nessun inedito, taglio scartato, out-takes o quant'altro, solo quelle canzoni che si sanno a memoria, mitiche, che hanno creato la leggenda del romanticismo rock urbano e innalzato Bruce a salvatore di un popolo di orfani che chiedevano gioiosamente una sola cosa, una reason to believe. Beffardo è constatare che quella reason to believe è oggi racchiusa in una scatola dal costo di 50 euro  (i CD) o 135 euro (i vinili) , senza nessuno sforzo di offrire a quegli ex-orfani (perché poi sono solo loro ad acquistarlo, non i giovani che non c'erano) qualcosa di nuovo, perduto e ritrovato. Leggo su fbook qualcuno  scrivere che i bassi di The River  non si erano mai sentiti così, a parte che per godere delle rifiniture di masterizzazione bisogna possedere un impianto di una certa levatura esoterica, e poi perché non portare a compimento la tanto paventata ristampa di The River  sull'esempio di ciò che è stato fatto per Darkness  e Born To Run  completando la "meravigliosa trilogia". Invece, The River  Deluxe  Edition  sarà probabilmente realizzata in un prossimo futuro ma nel frattempo beccatevi questa minestra riscaldata, oggi con un tecnologico microonde. Sento già qualcuno dire, ma, Zambo, cazzo, te le vai a cercare, perché parli così del Boss......il fatto è che parlerei così anche degli Stones, di Willy DeVille o di chiunque altro se fosse il caso, l'ho già detto più volte, il mio approccio al rock è laico non fideista. Di Willy DeVille, povero dimenticato dalle aristocrazie di potere del rock, si è avuto il doppio CD+DVD Live at Rockpalast  che rimette in circolo il Mink DeVille degli anni a cavallo tra 1978 e 1981, poco trattati e mai documentati, gli Stones hanno invece "liberato" parte dei loro archivi rendendo disponibili in CD e DVD ottimi concerti inediti, testimoniati solo da qualche bootleg, come i brillanti L.A.Friday 1975  e Hampton Coliseum 1981.  E' luogo comune vedere i Rolling Stones come dei mercenari, tossicodipendenti da vile denaro, e invece Springsteen come un santo che rispetta i suoi fans. Qualcosa non torna, lo Springsteen dei concerti non si discute ma lo Springsteen discografico, complice anche la Sony, si, e non solo da oggi. Sento già gli insulti arrivarmi, prendo e incasso ma non cambio idea.  Altra ristampa sotto inchiesta, il cofanetto di sei CD riguardante il terzo album dei Velvet Underground, disco fantastico, seminale e trascurato, sebbene non avanguardistico come i primi due, ma denso di belle canzoni e di sonorità scheletriche che vestono di un taglio quasi folk il rock urbano. Ebbene, tre su sei CD della Super Deluxe edition di The Velvet  Underground  sono la stessa cosa ovvero il disco originario, l'edizione mono (ma chisse ne frega) dello stesso e la stessa registrazione con il mixaggio però che volle fare  Lou Reed (closet mix) non in sintonia con il mix di Val Valentine, dove le differenze sono quasi impercettibili. Il problema è che queste ripetizioni non le regalano perché il cofanetto costa 55 euro, per fortuna c'è la Deluxe Edition in edizione economica, solo due CD, il mixaggio di Val Valentine ed il live al Matrix di San Francisco del novembre 1969, che salvano la situazione.
 

Non tutto va secondo questo schema, ad esempio per Allman Brothers Band e Rory Gallagher si è scelto la via di documentare in modo completo e definitivo due eventi cardine della loro carriera con materiale ufficialmente inedito, per i primi Live at Fillmore East,  il più bel disco dal vivo della storia del rock, e per il secondo Irish Tour  '74.  Di Live At Fillmore East  esistevano diverse edizioni, personalmente mi tengo stretta, oltre all'ormai usurato doppio vinile originario, una edizione in due CD del 2003, ma se qualcuno volesse possedere tutti gli show di quel magico marzo del 1971 a New York è accontentato, così come saranno soddisfatti i tanti fans del più grande bluesman irlandese che con i sette CD più un DVD di Irish Tour '74  possono conoscere e ascoltare l'incendio a suon di blues e rock, che Rory incurante dello stato d'assedio di quel conflitto sanguinario, appiccò nell'Irlanda di quell'anno, tra Cork, Dublino e Belfast. Altra storia ancora il bel box di quattro CD dell'artista a tutto tondo Joni Mitchell che con Love Has Many Faces ha ricomposto la sua avventura musicale ideando un'opera in quattro parti interagenti tra di loro con canzoni scelte e rimasterizzate della sua vasta collezione. Una sorta di documentario sonoro (e visivo) sull'amore e la mancanza di esso che esaltano un'artista la cui creatività attraversa senza gerarchie musica, letteratura, pittura, natura, vita vissuta, psicanalisi. Peccato che nella selezione dei brani abbia dimenticato un album così bello come l'ultimo Shine  e abbia estratto dall'incantevole Heijra  solo una traccia, delegando altre canzoni di quell'album alle versioni orchestrali contenute in Travelogue.  Al di là di ciò Love Has Many Faces  è un libro a quattro CD originale e  pur non offrendo nulla di nuovo intriga con la sua eleganza e raffinatezzao, e con una delle voci più belle che il cantautorato femminile abbia regalato. Molto di nuovo offre invece Wilco Alpha Mike Foxtrot  anche qui  quattro CD che assemblano rare tracks tra il 1994 e 2014. Non tutto è superlativo anche perché il meglio di Wilco è già stato pubblicato ma in questo caso il percorso scelto è l'approfondimento con tracce rare, inedite, uscite qui e là su delle raccolte, dei tributi e degli Ep, qualche out-takes e diversi live. Un lavoro che amplia il livello di conoscenza su una delle rock band più importanti degli ultimi ventanni.
 

 
Chiudo qui, altre cose non mi vengono in mente o non le ho ascoltate, se dovessi dare una votazione da uno a cinque al 2014, musicalmente e solo musicalmente parlando, affibbio un quattro. Confrontato col 1984 o il 1974,  il voto potrebbe diventare tre se non addirittura due, ma i tempi sono cambiati e bisogna adattarsi. Per curiosità elenco invece il BEST delle ultime due decadi, il 1994 quando scrivevo per Il Mucchio e il 2004.

1994, la Top 20 del Mucchio era così costituita : David Byrne (omonimo), Jeff Buckley (Grace), Johnny Cash (American Recordings), Nick Cave (Let Love In), Cooder/Tourè (Talking Timbuktù), Grant Lee Buffalo (Mighty Joe Moon), Ben Harper (Welcome To The Cruel World), Ted Hawkins (The Next Hundred Years), Tom Petty (Wildflowers), Portishead (Dummy). Primal Scream (Give Out But Don't Give Up), Robbie Robertson (Music For The Native Americans), Rolling Stones (Voodoo Lounge), Todd Snider (Songs For The Daily Planet), Soul Coughin (Ruby Vroom), Soundgarden (Superunknown), Jon Spencer (Orange), Sugar (File Under Easy Listening), Jimmie Vaughan (Strange Pleasure), Neil Young (Sleeps With TheAngels).

2004, i miei dieci per il pool del Buscadero erano: Pearl Jam (Live at Benaroya Hall), Cheap Wine (Moving), Dr.John (N'Awlinz: Dis Dat or D'Udda), Jesse Malin (The Heat), Patti Smith (Trampin'), Tarbox Ramblers (A Fix Back East), JJ Cale (To Tulsa and Back), North Mississippi Allstar (Hill Country Revue/Live Bonnaroo), Dwight Yoakam (Used Records), Bobby Charles (Last Train To Memphis). Il poll dei giornalisti del Buscadero aveva decretato disco dell'anno Trampin' di Patti Smith davanti a Dr.John e A Ghost Is Born  di Wilco.

A voi le valutazioni e Buon Anno

MAURO ZAMBELLINI    30 DICEMBRE 2014

 

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 15 dicembre 2014

Mink De Ville Live at Rockpalast

 
Nei grandi misteri del rock n'roll quello di Willy DeVille occupa un posto di rilievo. Come un talento di prima grandezza sia stato così ignorato, sottovalutato e osteggiato da vivo e completamente dimenticato da morto, se si eccettuano due canzoni  riprese da Boz Scaggs nel suo Memphis , una canzone, The Night Comes Down, a lui dedicata da Peter Wolf in Midnight Souvenirs  e piccoli ma affettuosi ricordi da parte di artisti minori, molti dei quali italiani. Non sto parlando di un artista che ha fatto un paio di dischi e poi si è rifugiato sui monti Appalachi o in qualche sperduta località della California a vivere la sua boheme di beautiful loser  ma di un cantante/autore/performer straordinario che può contare su almeno tredici dischi in studio e numerosi Live, uno che ha lavorato con alcuni tra i più prestigiosi produttori rock (Jack Nitzsche, Jim Dickinson, Mark Knopfler, John Shenale, Steve Douglas), uno che ha inciso con le più grandi case discografiche del mondo (Capitol, Atlantic, Polydor, Warner) e incrociato musicisti del valore di Mark Knopfler, Jim Dickinson, David Hidalgo dei Los Lobos, la sezione ritmica (Ron Tutt e Jerry Scheff) di ElvisPresley , l'arrangiatore e compositore francese Jean Claude Petit, oltre al leggendario Doc Pomus, a Dr.John, Zachary Richard, Freebo e Freddy Koella, per elencarne alcuni. Forse più che mistero bisognerebbe usare la parola vergogna, la dimostrazione che il circo del rock non è molto diverso dalla società reale e ne riflette le ingiustizie e le assurdità, oltre a non costituire quel rifugio spesso idealizzato da noi fans. Non riconoscere un talento solo perché le sue cattive abitudini ed il suo anticonformismo cozzavano con un'idea di morale dominante diversa è quantomeno ipocrisia e meschinità, oltre che intolleranza . Willy DeVille non sbandierava i suoi vizi come vessillo di una trasgressione da rotocalco, erano suoi fatti privati, spesso vissuti con sofferenza e contraddizioni, nulla avevano a che vedere con la sua musica, a parte un'estrema sensibilità nel raccontare di junkies e fragilità da tossici, e con le sue esibizioni, sempre superlative e all'altezza della situazione anche quando l'uomo sembrava crollare da un momento all'altro inghiottito dal suo pallore, dal suo sudore sospetto, dalle sue sigarette. Una nuova testimonianza delle sue  performance lo offre l' eccellente mini Box di due CD ed un DVD Live at Rockpalast 1978 & 1981  che documentano concerti nella prima fase della sua carriera, quando il suo set si chiamava Mink DeVille. La Germania che contrariamente alla sua fama di freddezza e rigidità, ha sempre nutrito per il gitano  grande amore e considerazione, è il teatro  di due infuocati concerti della serie Rockpalast, il primo nel 1978 in uno studio televisivo a Colonia, il secondo nel 1981 alla Grugahalle di Essen.  Due concerti diversi, con band diverse e  scalette leggermente differenti, registrati in due annate importanti nella carriera di William Borsey Jr., nel 1978 quando Mink DeVille  era agli albori della sua avventura, con solo due dischi alle spalle, e nel 1981 quando la fama del gruppo aveva varcato l'Atlantico ed il suo set si segnalava come una della cose più originali del nuovo rock americano
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Non ci sono molti documenti sonori che testimoniano quella fase di Mink DeVille, rari bootleg  ormai introvabili e adesso  questo fantastico primo CD e DVD di Live at Rockpalast . Il concerto risale al giugno del 1978, stesso mese di pubblicazione di Return To Magenta e avviene in uno studio televisivo a Colonia in un'atmosfera piuttosto intima davanti ad un centinaio di fortunati, molti dei quali con capelli lunghi e vestiti con abiti casual semi-hippie. Willy è avanti dieci anni e non ci vuole molto a capirlo. Giovane, filiforme, sbarbato ma col viso da canaglia,  ciuffone di capelli e l'immancabile mise di gilè, pants a sigaretta, cravatta nera e camicia rosa, entra in scena ed è un latrato blues da far impallidire lo stesso Howlin' Wolf, tagliente come è Gunslinger, secondo brano dopo Venus of Avenue D.  Con lui c'è la band con cui ha esordito in Cabretta, Louis X.Erlanger è il chitarrista, Manfred Allen il batterista, Bobby Leonards alle tastiere e Ruben Siquenza al basso, il sound è una lama di rasoio affondata nel soul e nel r&b. Il miglior rock n'roll di fine '70, se fosse venuto fuori in Inghilterra avrebbe goduto di un risalto molto maggiore, accostato a Graham Parker and The Rumour, Dr.Feelgood, Elvis Costello and The Attractions, ma gli americani non sempre sono sul pezzo. Lo show è eccitante da morire, nervous and shakey, con la scaletta che alterna momenti di pura adrenalina, i brani di Cabretta, a momenti più melodrammatici, le ballate di Magenta . Nell'introdurre Just Your Friends, Willy posiziona l'armonica, imbraccia la chitarra acustica e menziona Bob Dylan, in Guardian Angel  mischia new-wave e rock/soul, con Cadillac Walk insegna al texano Moon Martin come essere un cane randagio delle backstreets, in She's So Tough sguaina una Gibson SG e recita la sua romanza di perdizione prima di infilarsi in un gioco di repentine accelerazioni e grassi colpi di sax. E' il sound newyorchese al 100% di Mink DeVille 77, scordatevi il DeVille morbido di New Orleans, qui c'è un look sharp  che afferra rabbioso il blues ( pericolosa la versione Steady Drivin' Man) ed il rock n'roll delle origini,  impiastricciandolo di puertoricain  ( le immancabili Spanish Stroll e Soul Twist). In quest'ultima canta come fosse Joe Tex e subito si cala nei panni di James Brown, abbandona la chitarra, si mette l'asciugamano al collo, impugna il microfono e interpreta Just You 'N' Me come se Mr.Dynamite fosse lì davanti ad ascoltarlo. Memorabile. Chiude il concerto con un brano tenuto fuori dal nuovo disco, Shadows In The Night  ed è una jam di oltre dodici minuti dove Willy finisce in ginocchio dopo un'ora di show ad urlare oh yeah come fosse una preghiera rhythm and blues da ficcarsi nelle orecchie e nel cuore. Un Mink DeVille pressoché inedito, esaltante
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Il contratto di Mink DeVille con la Capitol andò in frantumi con Le Chat Bleu, splendido album mezzo parigino e mezzo newyorchese che lasciò di stucco i discografici americani, impossibilitati a capire un simile disco, così originale e così lontano dal mainstream di MTV che al tempo stava montando. Il disco successivo inaugurò il suo accasamento con la Atlantic di Ahmet Ertegun. Sembrò il passo decisivo verso il successo, DeVille incontrava la casa discografica dei suoi miti, i Drifters innanzitutto, ritrovava Jack Nitzsche come produttore e dietro la consolle sedeva l'ingegnere del suono Thom Panunzio il quale avendo lavorato con Bruce Springsteen poteva creare delle analogie con quel rock che saliva dal Jersey Shore, allora vincente. In poche parole era al posto giusto nel momento giusto e Coupe De Grace  era il disco della svolta. Ma le cose non andarono secondo previsione. La band funzionava alla grande, la sezione ritmica affidata a Joey Vasta e Tommy Price, la chitarra ritmica di Ricky Borgia, un sassofonista (Louis Cortelezzi) che evocava il sound di Clarence Clemons ed un tastierista, Kenny Margolis che quando abbandonava Memphis imbracciava una fisarmonica e portava Willy a passeggiare nella Louisiana cajun. Cosa volere di più, una vera rock n'roll band, meno spigolosa di quella di Cabretta  ma solida e sfaccettata ed un disco che coniugava torrido r&b, soul romantico alla Ben E.King, sferzante rock n'roll in chiave anni '50 e southern ballads quali Help Me To Make It dello sconosciuto Eddie Hinton  e You Better Move On di Arthur Alexander. E invece la storia è nota, la racconta compitamente il libro Love and Emotion ( Pacini Editore, 2013), Willy rimane uno stranger in town, le vendite sono fiacche e neppure un secondo disco per la Atlantic con dentro un pezzo talmente orecchiabile e vendibile, Demasiado Corazon, da sedurre anche la misera TV italiana, ribalta la situazione. In Europa diventa "culto", negli States rimane nel limbo, ballano tutti, tranne gli americani. Coup De Grace  esce nell'ottobre del 1981, stesso mese del concerto alla Grugahalle di Essen documentato dal secondo CD e DVD  nel Live at Rockpalast.  Dalla centinaia di presenti dello show del 1978 si è passati ad una sala ben più capiente con migliaia di fans, Willy è leggermente trasformato, sempre magro e affusolato, solite sigarette, stesso look da dandy dei quartieri spagnoli ma adesso c'è l'eyeliner a sottolineare i penetranti occhi scuri, gli orecchini, un dente d'oro ed un baio di baffetti da latin lover. La band è identica al disco e da poco in pista, lo show sontuoso sebbene il Mink DeVille del 1984 visto a Milano risulterà più potente e rodato. Un leggero affaticamento nella voce di Willy in qualche brano sottolineato dai fischi nei brani lenti (non è roba per sassoni) ma complessivamente un'esibizione qualitativamente superlativa. Il CD (e DVD) costituisce un altro inedito per il Mink DeVille dei primi anni ottanta visto che i bootleg rintracciabili riportavano concerti dell'anno seguente, il 1982. L'apertura ora è affidata allo strumentale dei Viscounts Harlem Nocturne, come costume per una vera revue, e il ritmo sinuoso e vizioso di Slow Drain sembra fatto apposto per un club di latin jazz.  Savoir Faire estratta da Le Chat Bleu  e Cadillac Walk  soffiano sul fuoco, quest'ultima è secca e tirata, un drive ossessivo punteggiata dal piano di Margolis e dal duello a distanza tra la slide di Willy e l'elettrica di Ricky Borgia, che pare un Brian Setzer un po' più tamarro. Grande versione.  Altre highlights sono Mixed Up, Shook Up Girl,  lenta e sensuale e Just Your Friends meno dylaniana e più spectoriana rispetto a quella di Colonia 78.

La band è in rodaggio ma già in gran spolvero, si leva un sound da E-Street Band, il soul puro di Can't Do Without It  in odore di Otis Redding si fonde con Love and Emotion, una delle tante riprese di Coup de Grace, Love Me Like You Did Before, dove Willy sfodera la Gibson, potrebbe essere la controfigura di Happy di Keith Richards. Fradicio di sudore, Willy non allenta nemmeno la cravatta, lui è un cantante dell'anima e quando intona Teardrops Must Fall  diventa il più romantico dei crooner mentre ritorna il rocker del barrio quando si infila in una torbida e incalzante Steady Drivin' Man e in Just Give Me One Good Reason il cui assolo di sax, in stile Jersey sound, è servito ai Rocking Chairs per aprire la loro Old Rocker Busted.

La band vestita interamente di scuro con l'eccezione delle camicie chiare pare uscita da un club anni '50 di Brooklyn, perfetti nel ruolo e nel look.  Una magistrale versione di This Must Be The Night  introduce il gran finale, con Spanish Stroll e i sette e passa minuti rollingstoniani di Lipstick Traces  dove Willy fa il passo d'oca, le chitarre duellano, Margolis suona alla Jerry Lee Lewis e la sezione ritmica fa il resto. Essen è alle stelle, ci pensa Willy a mandare a nanna i tedeschi, chiude cantando in francese il tradizionale zydeco Mazurka di Queen Ida. Settantasette minuti di show, 77 minuti di Mink DeVille mai visto prima d'ora.

MAURO   ZAMBELLINI    

 

 


 

 

venerdì 21 novembre 2014

BLUE COLLAR ROCK



Negli anni ottanta per reazione alla musica sintetica e di plastica che riempiva le classifiche e le radio si cominciò a parlare di blue collar rock, di rock operaio, con riferimento alla musica che band e musicisti legati ad un contesto proletario suonavano negli Stati Uniti. Non era un vero e proprio sottogenere perchè come tutto il rock classico derivava dal rock n'roll degli anni cinquanta, dal blues e dal rhythm and blues ma gli autori di questa musica possedevano un low profile indistinguibile dai fruitori e dal pubblico a cui si rivolgevano, spesso come loro ragazzi della porta accanto e figli di quella classe operaia bianca che abitava i sobborghi delle città industriali della East Coast degli Stati Uniti. Città come Pittsburgh, allora capitale della siderurgia, Detroit, il New Jersey, Cleveland, divennero i centri di un rock sudato, sanguigno e spavaldo che cantava di fughe da una realtà che un ceto sociale basso aveva decretato come immutabile e stabilito ed invece questi rockers minavano alla base usando le chitarre per sogni di riscatto, vite diverse, aspirazioni fuori dalla fabbrica, amicizie, amori e futuro dignitoso. Orgogliosi ma intenzionato a giocarsi con la musica una chance per una vita migliore (cosa che i neri facevano con la boxe o il basket), questi rockers erano lo specchio del loro pubblico, ne condividevano mentalità, cultura, cuore e valori, oltre a possedere l'attitudine di chi sul palco dava il tutto e per tutto, come fosse una questione di vita e di morte. Da lì, da quel girone in tuta blu del rock sono usciti Bruce Springsteen, valga a simbolo la sua Factory per come un figlio "fuggiva" la vita di merda del padre, Bob Seger, Joe Grushecky, John Mellencamp sebbene in un ambito più rurale, John Cafferty, Steve Earle pur con le differenze dell'essere un texano a Nashville, Charlie Pickett, anche i Blasters a ben vedere, con caratteristiche legate al rock n'roll fifties e appartenenti alla vasta area di sobborghi di Los Angeles, e altri nomi minori che comunque traducevano una delle verità più profonde e sotterranee della musica rock ovvero che questa musica non comincia e non finisce con le superstar ma con i cento e cento dischi dimenticati che brillano lo spazio di un istante. Gli anni seguenti hanno un po' cambiato lo scenario, alcuni di quei blue collar sono diventati delle star ma non hanno smarrito, è il caso di Springsteen, il sentito legame con le radici e l'ambiente da cui sono usciti, lo testimonia la popolarità che gode ancora oggi nelle città della cintura industriale della East Coast, ma la definizione blue-collar ha perso un po' di smalto e ragione, in virtù del fatto che la classe operaia è stata ridimensionata dalla crisi e certe roccaforti industriali si sono trasformate (Pittsburgh) o degradate (Detroit), finendo come termine nell'essere usato, a volte a sproposito, come una etichetta vetusta ed ingiallita per band dalla dimensione locale, proprie di un sottobosco marginale e localistico, solitamente confinato a club e bar e a qualche disco realmente indipendente. Ne è un esempio GB Leighton di Minneapolis col suo Live From Pickle Park, anche se la scena cosidetta americana ha talvolta partorito nomi ascrivibili all'universo blue collar mediati con una matrice rurale e country-folk.

 Proprio la fusione di americana con l'attitudine orgogliosamente blue collar di un rock di serie B dà modo di apprezzare due dischi interessanti recentemente usciti sul mercato . Il primo, e di certo più eccitante è The First Waltz degli Hard Working Americans, sigla sotto cui si nasconde un supergruppo formato da personaggi minori ma validi del rock Usa, come il cantante e songwriter Todd Snider, il bassista dei Widespread Panic Dave Schools, il chitarrista di Chris Robinson Brotherhood (e Ryan Adams) Neal Casal, il tastierista Chad Staehly (Great American Taxi) ed il fratellino di Derek Trucks, Duane, alla batteria. Hanno debuttato nel 2013 in un concerto a Boulder in Colorado e nello stesso anno hanno pubblicato l'eponimo album registrato negli studi di Bob Weir a San Rafael in California. Danno il meglio di sé in concerto, scelta quasi obbligata per una blue collar band, considerando il fatto che il disco d'esordio era composto interamente da cover. The First Waltz, titolo di caustica ironia low class, è un rockumentario in DVD che assembla prove di concerto, spezzoni di show a Boulder, Nashville e San Francisco, racconti personali, scene di strada, estratti di registrazioni in studio, corredato da un CD che funge da colonna sonora del film. Ne esce una fotografia variopinta ed eloquente di una ruvida band di strada che si muove tra roots e southern rock, blues, jam psichedeliche e folk con una musica pulsante, sanguigna, onesta e coinvolgente. L'identità di quelle che erano definite bar-boogie band qui in possesso di un contagioso groove che apre a jam, strumenti a ruota libera, riletture sciolte, improvvisate, per nulla canoniche. Una band che dal vivo è garanzia di divertimento e sano rock dal basso, giusta attitudine e feeling d'assieme, basta ascoltarsi la lunga Mission Accomplished che altro non è che una jammata rivisitazione di Willie and The Hand Jive per accorgersi che questi Hard Working Americans sarebbero capaci di farvi perdere la testa se per caso venissero a suonare sotto casa.

 Un mix di Black Crowes, NMAS, Bottle Rockets con il piglio dei blue-collar rockers e l'inventiva della band  californiane, anche se di base pulsa un rock sporco di blues, autostrade e Memphis. Proprio l'origine dei brani coverizzati svela la natura "proletaria" degli HWA, canzoni di autori non troppo di fama, che appartengono al sottobosco della musica roots e del rock provinciale, è il caso di Kevin Kinney e della sua Straight To Hell, brano che era su un disco dei Drivin n' Cryin oppure di I Don't Have A Gun di Tommy Womack, rock writer conosciuto da una cerchia ristretta di appassionati. La prima è una ballad segnata dalla voce straziata di Snider e da una lap steel malinconica, scaraventata all' inferno da un lancinante assolo di elettrica, la seconda sembra estratta da un disco di Chris Robinson Brotherhood. Appartengono allo stesso mondo dei B-records Down To The Well (solo sul DVD) di Kevin Gordon, lo scalpitante country-rock Stomp and Holler di Hayes Carll e la serrata Another Train di Will Kimbrough mixata con la cruda Workingman Blues mentre dal repertorio folk di Gillian Welch e David Rawlings arriva la delicata Wrecking Ball. Ma sono altre tracce a definire al meglio il set blue collar degli HWA, la scura ed ipnotica Blackland Farmer, misto di notturno blues, rimandi hillbilly e foschie roots che si alzano in una ubriacante coda strumentale, la già citata Mission Accomplished, una acida e doorsiana Guaranteed e quella The Mountain Song all'insegna dei Grateful Dead che va a braccetto con una delle quotes che accompagnano il disco, scritte nel booklet interno, ovvero Jerry Garcia è importante come Benjamin Franklin ed il rock n'roll ha lo stesso valore della Costituzione. La classe operaia va in paradiso.

Che il blue-collar rock non ne faccia una questione di quote rosa, ovvero chi sa suonare col cuore e con l'anima venga avanti, non importa se maschio o femmina, lo dice il nuovo disco di Mary Cutrufello, Faithless World. Lo scalpore che accompagnò il suo debutto nel mondo discografico, prima un album autoprodotto e poi nel 1998 When The Night Is Through per la Mercury, è ormai un lontano ricordo, con gli anni la tenace cantante e autrice di Houston (ma cresciuta nel Connecticut) è rimasta relegata al circuito marginale dei piccoli club e bar. In Italia c'è venuta parecchie volte e chi l'ha vista dal vivo sa che se il clamore è svanito, questo non si può dire della sua grinta e delle sua onestà artistica. Faithless World sembra quasi una ripartenza per una cantautrice rock che da giovane ha idolatrato Springsteen e col tempo si è costruita una sua personalità tra songwriting rock e radici. Brava nello scrivere, la Appaloosa offre la possibilità di leggere i testi del disco tradotti in italiano, Mary Cutrufello possiede una voce rauca e grintosa che si adatta al suo rock arrembante e alle sue storie di perdenti e illusi, ne è esempio l' inizio del disco con Cold River e Promise Into Darkness, due brani che avrebbero fatto la felicità di quanti sull'onda di Darkness e The River si sono messi ad imitare il Boss. Il mondo di Mary Cutrufello si consuma in stanze di motel, nelle strade della vasta provincia americana, in città anonime, in relazioni fallimentari e occasioni perdute, un universo proletario che pur non direttamente legato alla classe operaia ne riflette la precarità, la miseria, il desiderio di agganciare un ultima chance. Mary Cutrufello ha una verve ruvida e texana, tutto Faithless World parla un linguaggio diretto, senza fronzoli e autoindulgenza, ma radicato nel rock. Basta arrivare al terzo brano, Lonesome and The Wine, una storia di solitudine e tradimento in un fugace incontro nel bar di un hotel, per accorgersi che tra gli amori della Cutrufello oltre al Texas e al Boss ci sono gli Stones di Dead Flowers e quel modo di fare country fuori dagli stereotipi e da Nashville che è la cifra stilistica di Steve Earle. In Worthy Girl, non sono una ragazza degna e non voglio saperne del tuo amore, la cantautrice mostra il suo lato riot girl, la voce è aspra, le chitarre mordono ma è l'organo di Tommy Barbarella a dare spessore al brano, una presenza importante anche in Promise Into Darkness e Fool For You, quest'ultimo un rockaccio tutto nervi urlato con la rabbia dei bassifondi. La tensione si allenta in Fools and Lovers ed in Three Broken Hearts altro episodio da roadhouse dove gli uomini si succedono in camere di motel senza amore e lei rimane con un grande vuoto nel cuore, lasciandosi scappare l'unica occasione per cui valeva la pena tentare. Ci pensa la ferrovia di Santa Fè (Santa Fe Railroad) a portare un po' di conforto, qui il country è solo uno sfondo per una ballad dai colori western in cui primeggia il tocco della lap steel di Mike Hardwick e la Cutrufello si fa carico di una calda nostalgia. Di coraggio ed orgoglio ne ha la Cutrufello, per come ha vissuto la sua vita, per come ha gestito una carriera di alti (pochi) e bassi (tanti) ma chiudere un disco con una Canzone sulla Fed-Ex non è da tutti. Inventa un roots-blues agro e polemico dove lei veste i panni di un esausto corriere con la schiena rotta che fa le sue ingombranti consegne in mezzo alla neve e al casino totale dopo aver guidato tutto il giorno, mandando a quel paese lui e quei posti di merda in cui vivono. Ribelle nei modi, blue-collar nello spirito, è un Mondo Senzafede ma l' indomita Mary Cutrufello ci ha fatto il callo.



MAURO ZAMBELLINI







martedì 4 novembre 2014

AUTUNNO CALDO


Nulla a che vedere con il più tribolato contenzioso governo/sindacati con imminente sciopero generale, qui stiamo sul frivolo e parliamo di rock anche se chi ama il genere sa quanta cultura si nasconda dietro un disco. Un autunno così caldo non capitava da diversi anni, ottimi o buoni dischi arrivati sul mercato in finale d'estate o al primo freddo, qualcuno firmato dalle grandi star, altri più anonimi ed indipendenti. Di Gary Clark Jr. e del suo Live ho già scritto in questo blog, per chi scrive è il disco blues dell'anno pur irrobustito da una massiccia dose di rock e di Hendrix, che rimane sempre il più grande bluesman elettrico. Se non siete ancora convinti del ragazzo nero venuto dal Texas procuratevi il DVD Rock In Rio, testimonianza di un concerto tenuto in quel festival a Lisbona il 29 maggio di quest'anno. E' una bomba, non è lungo come il doppio live CD, solo dodici pezzi ma bastano e avanzano per far capire come canta e suona il nostro, coadiuvato da una band (basso, batteria e altra chitarra) formidabile ed incendiaria. E' un bootleg ma video e audio sono eccellenti, trovatelo, costa poco e vale molto.

        A questo punto è il disco dell'anno e non lo dico solo io, difficile fare meglio di Down Where The Spirit Meets The Bone di Lucinda Williams, un doppio album che riporta il rock in cima alle vette della grande musica con una sequenza di canzoni che racchiudono l'intero percorso della cantautrice e rockeuse della Louisiana e dimostrano cosa sia l'ispirazione quando questa si unisce a cuore, mente, esperienza, sentimento e tecnica. Messasi in proprio con la casa discografica Thirty Tigers, coadiuvata  da vecchi amici e grandi musicisti (tra cui l'immarcescibile Greg Leisz, lo swampin' Tony Joe White e l'eclettico Bill Frisell) Lucinda Williams ha infilato una carriera intera in 20 canzoni che hanno il potere di trascinare l'ascoltatore in un mondo popolato di tristezze e risalite, malinconie e rabbia, sogni e delusioni, creando un doppio album che ha la valenza di capolavori come Exile degli Stones, Blonde on Blonde di Dylan, London Calling dei Clash, The River di Bruce. Ispirazione, maturità, senso del rock n'roll, emozioni, anima scura e occhio vivo, Down Where The Spirits Meets The Bone è un doppio album amaro perché il mondo, della Williams ed il nostro, non è gioioso ma anche liberatorio, abbandonato allo swing di un rock n'roll di strada, con ballate che ti strappano lacrime e chitarre elettriche che  ti incitano a resistere verso la vita e la speranza, visioni che evocano quel Sud appiccicoso, celato, segreto e nascosto così come appare nudo e crudo nelle immagini della serie True Detective e cantilene vocali basati sulla ossessiva reiterazione di versi e parole così da trasformare la canzone in una specie di mantra ipnotico, assuefante, sensuale. Brani come Foolishness o Something Wicked This Way Comes  sono esempio di nuova metrica elettrica, non si scrivono e cantano tutti i giorni, bisogna avere percorso una intera storia musicale, dal folk al blues, dal country al rock  con dischi uno più bello e diverso dall'altro, oltre a possedere la magia di raccontare e dare corpo a quell'incessante serbatoio di umori, misteri e fascino che è la Louisiana. Down Where The Spirit Meets The Bone è proprio come suggerisce il titolo, spirituale e carnale, assolutamente colossale nella sua qualità artistica.

 

      Al primo ascolto sono rimasto con un sorrisetto ebete sulle labbra, come dire, carino, bravo brother Jackson. Poi dopo diversi ascolti ho cominciato a sciogliere la matassa e a mettere da parte la nostalgia, sono entrato dentro le note e il significato delle canzoni e alla fine mi sono trovato con un album che non passa mattina che non lo metta nel lettore come primo disco della giornata. Standing In The Breach è davvero un bel disco e lo dice uno che non è mai stato un fan sfegatato di Jackson Browne anche se Late For Sky  e Running On Empty hanno riempito con le  loro luci al calar della sera una fase della mia vita quando ero ancora giovane e la west-coast simboleggiava un futuro ribollente di speranze. Ma Browne era comunque troppo melodico e "poetico" per il mio essere, preferivo le facce sporche e i teppisti elettrici, anche se come anima inquieta Browne non si è fatto mancare nulla, amori naufragati, cocaina, depressione, smarrimento dopo il diluvio. Ma quando nel 1979 mise in piedi No Nukes c'era un altro in quel concerto che vestiva meglio le mie urgenze ed il mio diventare adulto e rifletteva le mie origini popolari. D'altra parte non ho frequentato il liceo ma l' istituto tecnico come perito chimico e questo forse spiega perché alle poesie preferivo le Fender.  Ma con gli anni in-anta ho riscoperto un lato melodico che Jackson Browne in Standing In The Breach coglie perfettamente. Non è nulla di nuovo Standing In The Breach ma è il cliché di Jackson Browne elaborato al meglio, c'è l'eco dei suoi vecchi inni, la sua voce è rimasta convincente come quella di un fratello che ti avverte dei pericoli e dei fallimenti ed il passato è filtrato da una consapevolezza del presente che è specchio di una mente aperta, un intellettuale affatto imbolsito che scrive di quanto sia capace l'uomo nel far del male all'uomo. In più c'è una band coi fiocchi, Don Heffington alla batteria e Bob Glaub al basso oltre a Greg Leisz e Val McCalum assi portanti anche del disco di Lucinda Williams, insomma Standing In The Breach è uno dei suoi migliori dischi di sempre.

   Se quello di Gary Clark Jr. è il disco blues dell'anno, Plain Spoken di John Mellencamp è il disco folk dell'anno. Dismessi gli abiti di little bastard dell'heartland rock,  Mellencamp insiste sulla strada iniziata con Life Death Love and Freedom e No Better Than This ma più che l'ipnosi rurale di quei due dischi, in verità un po' monotoni con canzoni troppo simili e lentezze asfissianti, qui sceglie un basso profilo elettro-acustico con una maggiore ricchezza strumentale, arrangiamenti più vari e soluzioni ricche dal punto di vista melodico. In definitiva Plain Spoken scorre con più brio senza rinnegare le tinte seppiate di un folk intriso di blues rurale, country urbano e songwriting dylaniano con l'unica eccezione di un finale, Lawless Times, all'insegna di un rock arruffato e garagista. Trouble No More del 2003, disco di cover e lucido excursus in quel patrimonio di musica americana con cui erano cresciuti lui e i suoi ascoltatori, risulta essere lo spartiacque della carriera di Mellencamp, dopo quel disco è cambiato e oggi la sua maturità e la sua coscienza lo portano ad avere una consapevolezza sociale ed una attenzione speciale verso quell'America che non crede più ai sogni. Una sorta di Woody Guthrie elettrico. 

   Se questi sono i grandi dell'autunno 2014  dietro c'è un pullulare di cadetti che regala lavori più che dignitosi. A cominciare dagli italiani dove una volta di più si fanno notare i pesaresi Cheap Wine con Beggar Town, un disco cupo e pessimista nei testi ma con una sintonia tra il pianoforte di Raffaelli e le svisate acide di Michele Diamantini pressoché perfetta, a cui si saldano il cantato misurato del fratello Marco e una sempre nervosa sezione ritmica. Stati d'animo rabbiosi con qualche squarcio di luce, ballate e fughe psichedeliche, i Cheap Wine arrivano con Beggar Town al punto climax della loro avventura, con un disco lucido ed una produzione da manuale, un suono secco e pulito pur nel sublime caos della loro tempesta elettrica. Mai uguali a prima ma coerenti con la loro storia e la loro progressiva evoluzione i Cheap Wine sono da un pezzo un punto di riferimento in Italia per quanti coniugano romanticismo ed urbano underground. Legati invece ad un contesto roots i Lowlands hanno pubblicato un album, Love Etc...., che riflette gli stati d'animo del loro frontman Edward Abbiaticon canzoni recuperate dal passato, canzoni che lo hanno aiutato a superare momenti funestati da perdite, abbandoni, delusioni. Edward Abbiati è un ottima penna nel panorama del rock made in Italy, il suo disco con Chris Cacavas, Me and The Devil, è una delle cose migliori dell'annata in corso e allo stesso modo Love Etc...pur essendo meno eclatante è un lavoro che esalta il suo lato intimista e riflessivo. Coadiuvato da un'ottima band a cui si è aggiunta una sezione fiati di derivazione classica e jazz, Abbiati coi Lowlands assembla canzone d'autore, folk-rock ed il respiro ampio di una sezione fiati, oltre a cori, violino e violoncello, portando  le loro radici in una bettola di New Orleans. Immutato il mood intimista e sentimentale delle canzoni ma il risultato è  un folk da marching band con parecchio swing nel sangue, armonie pop, coreografie dixieland, voci soul in uno dei dischi più anomali del loro itinerario musicale, un modo intelligente per parlare d'amore senza cedere alla retorica e ai piagnistei.  

 
Di tutt'altro tenore è Americana dei Guano Padano, un disco strumentale che come suggerisce il titolo si addentra nei paesaggi di quella musica americana che si nutre di suggestioni letterarie come le fotografiche sulla Grande Depressione di Dorothea Lange, gli scritti di John Steinbeck, Sherwood Anderson, Edgar Lee Masters, Richard Wright,  Hemingway e John Fante. I Guano Padano ovvero le corde di Alessandro Stefana, il contrabbasso di Danilo Gallo, le percussioni di Zeno De Rossi più una serie di strumentisti vari compresi trombe, trombone e sassofoni, cuciono la fascinazione verso  americana con la stima nei confronti di quegli intellettuali italiani che negli anni neri del fascismo sfidarono il regime introducendo nella nostra cultura, attraverso letture e traduzioni, la letteratura americana contemporanea. Alcune tracce del disco sono influenzate da La Luna e i Falò e i Mari del Sud di Cesare Pavese ed il titolo disco si riferisce ad una controversa antologia realizzata negli anni 40 del novecento su progetto di Elio Vittorini, una collezione di testi di 33 narratori americani alla cui realizzazione collaborarono per le traduzione Cesare Pavese, Eugenio Montale e Alberto Moravia. Purtroppo Vittorini non riuscì a pubblicare Americana nel modo in cui lo pensò perché il regime fascista in quel periodo poco tollerava un'esterofilia che non parlasse tedesco. Eppure la curiosità verso la letteratura americana aveva suscitato fin dagli anni trenta un sotterraneo interesse tra gli intellettuali, così hanno fatto tanti anni dopo i Guano Padano approcciandosi quegli autori americani, subendone la stessa fascinazione e restituendo un'America primitiva, antica e vergine, uno score che traspone sterminate pianure, terre desolate e sobborghi poveri di città industrializzate, una musica che odora sudore, polvere e libertà. Ascoltare Americana è come immergersi in una soundtrack di un film in bianco e nero, il riferimento più vicino è lo splendido Nebraska di Alexander Payne con Bruce Dern e la musica di Mark Horton, il quale è difatti presente nel disco dei Guano Padano con dobro e banjo, assieme a Joey Burns dei Calexico. Visionario a tratti, affascinante sempre nelle sue evocazioni da road-movie,  Americana è un quadro di neorealismo elettroacustico con sprazzi ritmici e rarefazioni melodiche, visioni desolate ed improvvise esplosioni di energia, alchimie strumentali degne di Bill Frisell e scampoli dell'intreccio tra roots, jazz e musica etnica di Charlie Haden, svisate surf e accelerazioni twang anni '50, recitazioni orali, silenzi e squarci rumoristi alla King Crimson. Da sentire assolutamente.
 

    La parziale delusione di Somewhere Under Wonderland dei Counting Crows, uno degli album meno ispirati della loro collezione, è stata lenita da un paio di dischetti cosidetti minori ma interessanti. Cory Branan è un simpatico giovinastro del Mississippi con un pronunciato senso dell'ironia visto che il quarto suo disco lo intitola The No-Hit Wonder, dedica a chi come lui frequenta le retrovie della musica senza mai godere dei riflettori del successo. D'altra parte la sua non è musica di moda visto che il mestiere del cantautore country-rock è da parecchio in disuso ma il suo disco suona fresco e arzillo, come fosse l'esordio di Todd Snider. In effetti in The No-Hit Wonder un po' di nomi illustri ci sono, l'ex Drive By Truckers Jason Isbell, l'ex Black Crowes Audley Freed, l'ex Whiskeytown Caitlin Cary, gli Hold Steady Craig Finn e Steve Selvidge, amici che dicono dei bar frequentati dal nostro ovvero tanto entusiasmo, birra a fiumi e quell'honky tonk che a volte è scapigliato rockabilly, altre  ballate per addolcire un'esistenza di sfighe e magre ricompense. Insomma Cory Branan è l'ultimo cowboy arrivato in città, jeans lisi, stivali impolverati, faccia da schiaffi, come si fa a non volergli bene.  

 
 
Dal milieu cantautorale della East-Coast americana esce invece  Anthony D'Amato laureatosi a Princeton con il poeta e premio Pulitzer Paul Muldoon e oggi songwriter facente parte di quel giro d'artisti "colti" che comprende Pete Yorn, Rhett Miller, Josh Ritter. Adottato dalla scena newyorchese, D'Amato è autore di tre album, l'ultimo dei quali, The Shipwreck From The Shore è prodotto da Sam Kassirer ( Longhorne Slim, Lake Street Dive, Josh Ritter). Gli studi effettuati hanno segnato in modo netto il suo modo di comporre e cantare, se da una parte di fatti le sue canzoni mostrano evidenti sfumature poetiche con testi interessanti e complessi sull'amore ed il vivere, dall'altra parte il suo cantato sceglie un tono recitativo diverso dai conosciuti talkin' del folk-rock  d'autore. Questo modo di esprimersi regala a D'Amato una "voce" ed uno stile particolare pur muovendosi in un ambito di folk urbano e di indie-rock e soprattutto una coralità con cui, assieme ad un nutrito team di musicisti, costruisce canzoni che evocano band recenti come i Mumford and Sons e gli Of Monsters and Men. Non succede dappertutto in The Shipwreck From The Shore ma quando il pezzo si allarga in una complessità strumentale dove si sentono trombe, violini,tastiere, armoniche, clarinetti, oboe, oltre al consueto bagaglio di basso, chitarra,batteria, il senso epico di quelle band risalta in tutta la sua coralità. In altri momenti sono invece le ballate dai colori nordici e le solitudini dei grandi spazi a prevalere, gli arpeggi di chitarra e la vena folkie stralunata e poetica, cosa che piacerà a chi ha apprezzato i dischi di Jon Allen, Ben Howard, Josh Ritter, Willy Mason. Anime inquiete dai toni gentili. Vorrei parlarvi anche del nuovo disco di Ben Howard, I Forget Where We Were e del curuioso Heigh Ho di Blake Mills ma ad oggi non me li sono ancora procurati. Sarà per la prossima volta. Sweet november.

MAURO ZAMBELLINI