giovedì 21 febbraio 2013

LA NUOVA FRONTIERA


Ormai ce n'è per tutti i gusti, basta scegliere, il rock italiano NON cantato in italiano si è fatto adulto e maturo. Vi confesso che tra i CD che più mi hanno soddisfatto in questi ultimi mesi, ci sono proprio questi outsider  e la mia non è la solita ruffianata nazionalista ma l'impressione che finalmente, noi, una volta considerati periferia dell'impero, ormai non abbiamo più nulla da  invidiare a francesi, tedeschi, inglesi, irlandesi, perfino americani. Almeno nel rock. L'Italia s'è desta? Forse si, a guardare le canzoni dei Cheap Wine che finiscono nelle radio americane, i Red Wine Serenaders testa di serie dell'European Blues Challenge a Tolosa il prossimo marzo,  Miami and The Groovers in tour in Svezia, Daniele Tenca al Light of Day nel New Jersey, W.I.N.D. sempre più richiesti da musicisti internazionali, Sacri Cuori band di supporto nei dischi di Dan Stuart e Hugo Race, e chi più ne ha ne metta. Quindi il mio consiglio, anche se siete anglofoni come me, è di lasciar perdere gli hamburger e farvi un classico e vintage panino col salame. Senza salse e intrugli. D'altra parte lo shock non è così forte, tutti questi cantano in inglese e quindi vi sembrerà che nulla è cambiato nelle vostre abitudini. Provate, mi darete ragione, al posto di sforzarvi a scoprire l'ultimo roots-rocker del New Hampshire, il bluesman in agrodolce della Louisiana occidentale o il contadino in fregola che viene dagli Appalachi, fate un giro a kilometro zero e provate ad ascoltare Based On Lies  dei Cheap Wine, Ma-Moo Tones di Francesco Piu, Old Stories For Modern Times  di Veronica Sbergia & Max De Bernardi, Tracks From Ol'Station  di The Reverend  and The Lady, l'omonimo AriannAntinori, Good Things di Miami and The Groovers, Lake Pontchartrain di Cesare Carugi,  New Mind Revolution  dei Nerves and Muscles, Takin' a Break di Paolo Bonfanti, Wake Up Nation  di Daniele Tenca, , solo per citarne alcuni, vi troverete contenti e almeno per quanto riguarda il rock ed il blues vi concilierete col nostro discutibile paese.

giovedì 7 febbraio 2013

LITTLE FEAT


COLOGNE BRESCIANO   5 FEBBRAIO 2013
Cari vecchi Feats, li vedi arrivare sul palco e ti accorgi che di tempo ne è passato parecchio ed il tempo non aspetta proprio nessuno, nemmeno le rockstar. I Little Feat non sono mai stati delle rockstar, neanche quando avevano il loro leader Lowell George, ma un pezzo di storia del rock l'hanno sicuramente scritto perché il loro Waiting For Columbus rimane tuttora uno dei live album migliori della nostra musica e diversi altri titoli della loro collezione meritano di entrare nella lista dei 100 dischi fondamentali del rock. Inoltre e lo si è visto nel bel concerto  di Cologne Bresciano, loro sono depositari di uno stile che è unico perché il loro mix di rock, blues, R&B, latin and mexican music, New Orleans groove, country e jazz non assomiglia a nessun altro intruglio  in circolazione sebbene siano in tanti a cucinare gli stessi ingredienti. Nelle loro mani questo gumbo di american music è diventato uno degli "originali" del rock dello scorso secolo, un polo di riferimento della jam music assieme ad Allman e Dead. Anche se invecchiati suonano da Dio, Fred Tackett, un Feat della seconda ora, è uno che con chitarra Fender e mandolino fa quello che vuole, Bill Payne, l'unico Feat originario, intendendo quelli dei primi due album, è il gigante che presenzia dietro a pianoforte, organo e tastiere, Kenny Gradney da parte sua pompa un basso che unito alle percussioni di Sam Clayton, in seconda linea con una tie-dye t-shirt che lo fa sembrare un Neville Brothers, e alla batteria di Gabe Ford, dignitoso sostituto del famigerato drumming di Richie Hayward, purtroppo scomparso nel 2010, formano una sezione ritmica da mille e una notte, potente, dinamica, elastica, una macchina in grado di creare un groove irresistibile dove evidente è la scuola di New Orleans (con il terzo album Dixie Chicken furono tra i primi a portare la Big Easy nel rock)  più una serie di infiltrazioni  di ritmi latini e fluidità jazzistiche. Colui che sembra messo meno bene, almeno dal punto di vista fisico, è Paul Barrere, molto invecchiato e in prossimità di sottoporsi ad un intervento chirurgo al fegato. Limita al minimo le parti cantate lasciandole volentieri a Tackett e alla voce all black di Clayton ma con la chitarra è sempre un maestro, non si tira indietro e i duelli a fior di Fender con Tackett diventano l'elemento rock dello show, un rincorrersi e dialogare che porta sul palco le scorribande del southern-rock. I Little Feat suonano con disinvoltura e non-chalance ma mostrano un tasso tecnico straordinario, giostrano stacchi e controritmi, improvvisano come un combo, stemperano l'ortodossia blues in una fusione di linguaggi che diventa la cifra stilistica di una band assolutamente originale, una band che concede sia al corpo che alla mente e a tratti sa essere psichedelica, come sottolinea  la colorata e caleidoscopica immagine lisergica che troneggia alle loro spalle.