venerdì 17 agosto 2012

Small Faces: "negri" di Londra



Estate del 1966 : le radio pirata riempiono locali, negozi e case con Shapes of Things degli Yardbirds, Wild Things dei Troggs, River Deep Mountain High di Ike & Tina Turner, Eleonor Rigby dei Beatles, Summer in the City dei Lovin'Spoonful, I Feel Free dei Cream, Reach Out (I'll Be There) dei Four Tops,  l'Inghilterra diventa campione del mondo di calcio battendo la Germania a Wembley, Carnaby Street e King's Road pullulano di colori, boutiques, follie, giovani vocianti ed euforici, nei club si suona e si sballa con la nuova musica, Michelangelo Antonioni ritrae l'edonismo della città nel film Blow-Up. Londra è il centro del mondo, la capitale culturale e mondana del pianeta, la swingin' London. Quattro ragazzi dell'East-End sono troppo impegnati a suonare, fare shopping e stonarsi per accorgersi di  cosa succede intorno. Vivono in fretta, lavorano duro, sballano senza ritegno fumando erba e impasticcandosi con le anfetamine, poi arriverà anche l' LSD grazie al manager dei Beatles Brian Epstein, in poco tempo diventano i beniamini dei giovani londinesi.
Due di loro se ne sono andati per sempre, il cantante e chitarrista Steve Marriott bruciato nel suo cottage con le sue chitarre nel 1991, il bassista Ronnie Lane deceduto per sclerosi multipla nel 1997, gli altri due, il batterista Kenney Jones ed il tastierista Ian McLagan sono ancora attivi nella musica e hanno curato la ristampa in edizione deluxe dei loro primi quattro album rendendo giustizia agli Small Faces, perfetto esempio di gruppo mod capace di trasformarsi repentinamente e veicolare in un  brillante pop venato di rock e soul, inventivo e febbricitante, le aspettative di una generazione che tentava di rompere col passato e nello stesso tempo si immedesimava nel loro abbigliamento e nei loro atteggiamenti anticonformisti. Tra il 1965 e il 1968 gli Small Faces piazzarono 11 singoli nella Top 30 ma si rifiutarono di sedersi sugli allori cambiando stile da un album all'altro secondo i propri umori, salendo velocemente la china del successo e poi precipitando in un improvviso finale che lasciò monco il gruppo del suo leader e del suo eccezionale front-man Steve Marriott. Sarebbero nati i Faces e gli Humble Pie ma questa è un'altra storia.

Atteggiamento ribelle, accento cockney, buoni bevitori, origini piccolo-borghesi ed uno smisurato amore verso il soul ed il R&B americano, gli Small Faces portarono Memphis nell' East-End e con All or Nothing firmarono l'unico inno della Swingin' London in grado di competere con My Generation. Queste ristampe documentano la loro dead end street history spesso contrapposta alla più spettacolare avventura mod degli Who. Gli Who provenivano dalla zona di Shepherd Bush nel West-End, erano belligeranti, mascolini, ruvidi, usciti da un quartiere middle-class che i fans degli Small Faces accusavano essere "fighetto",  i Kinks abitavano nella parte nord di Londra,  erano colti, eleganti, dandy, androgini nelle pose, gli Small Faces personificavano  la riposta proletaria pur essendo di origini  piccolo-borghesi, avevano radici nella zona dimessa dell'East-End, erano ruspanti, vivaci, effervescenti, umorali. Vestivano alla moda, camicie preppy, pantaloni a tubo, giacche strette, foulard damascati, pool colorati, si tagliavano i capelli come dettava il momento, spendevano un sacco di soldi in scarpe, frequentavano le boutique di Carnaby Street ma  glielo si leggeva in faccia che erano quelli che venivano dalla periferia a  fare baldoria in centro città. Forse per questo, per questa loro naturalezza ed innocenza fecero breccia nei cuori dei giovani inglesi che li elessero portavoce di una inquietudine da sublimare a suon di R&B e shake. Proprio con Shake di Sam Cooke si apre il loro primo album, Small Faces del 1966 ristampato in due CD con l'originale album ed una messe di alternate version, single B sides, alternate mix, il solito pingue bottino per rendere appetibile una nuova e forse definitiva ristampa, anche se c'è chi spera in un Box antologico sull'esempio di quello magnifico dei Faces.
Grande era l'amore che i quattro nutrivano verso il soul e il R&B, verso Sam Cooke a Ray Charles in primis ma pure verso Otis Redding, la Tamla-Motown, Marvin Gaye, Booker T & Mg's, Don Covay, James Brown e le black-singers americane. Due erano gli elementi chiave che distinguevano gli Small Faces dai loro rivali: la capacità di riuscire ad improvvisare dei groove attorno ad un tema base standard e Steve Marriott, un musicista ed un cantante la cui energia era difficile da imitare e replicare e la cui voce rimane una delle più belle del British blues-rock. Ronnie Lane e Kenney Jones suonavano negli Outcasts e conobbero Steve Marriott in un negozio di strumenti musicali all'inizio del 1965. Due giorni dopo reclutarono il tastierista Jimmy Winston, erano nati gli Small Faces, li univa l'amore per Chuck Berry, Buddy Holly, Elvis, il soul e il R&B ma fu il successo dei Moody Blues della cover di Bessie Banks Go Now  a incoraggiarli a suonare roba del genere. La loro prima incisione fu E Too D, un brano piuttosto elementare ma quando ascoltarono  Anyway Anyhow Anywhere degli Who capirono che l'aggressività era la condizione necessaria per farsi accettare dalla nuova gioventù ribelle e allora venne fuori l'esplosivo Come On Children che cavalcava potente l'energia espressa da Marriott. Presero coraggio e si lanciarono in cover di soul e R&B ritagliandosi uno stile nervoso, urgente e pungente, ben espresso nell'album d'esordio Small Faces da brani come You Need Loving ammodernamento di You Need Love di Muddy Waters che i Led Zeppelin avrebbero poi trasformato in Whola Lotta Love avendo in testa gli Small Faces. Non era il solo brano a fare scalpore, c'era You Better Believe It dove si pappano in un colpo solo lo Spencer Davis Group, c'era il loro primo singolo What'cha Gonna Do About It qui replicato in una alternate version con inizio feedback alla Jimi Hendrix, c'era What's A Matter Baby di Clyde Otis e la strepitosa Sha La La La Lee di Mont Shuman, una delle vette assolute del beat. Non mancano brani di loro scrittura visto che l'album rispetta l'abitudine del periodo ovvero un contenitore di singoli e B-sides più una manciata di cover. Nelle bonus tracks c'è la gemma dimenticata di I've Got Mine prologo di quello che avverrà con lo psichedelico Ogden's Nut Gone Flake, c'è l'arrendevole It's Too Late con l'arsa voce e la graffiante chitarra di Marriott in primo piano e un coro di auh auh nelle retrovie, c'è lo Stax sound brittizzato di Sorry She's Mine, il modo di suonare la chitarra di Syd Barrett in E Too D e la melodia pop di One Night Stand, c'è la sofferta e bluesy Don't Stop What You're Doing e la garagista Patterns. C'è quella Come On Children che spiega in che modo gli Small Faces filtrassero il R&B americano con la nervosa irruenza di monelli da strada,  quell'attitudine cockney che ribaltava  un sincero tributo in qualcosa di originale, un groove standard trasformato dall'attacco punk degli spasmi e del feedback della chitarra di Marriott. Valeva anche il notevole lavoro ritmico di Kenney Jones, grande batterista e del bassista Ronnie Lane che con la sua voce melodica e armoniosa faceva da contraltare alle asprezze negroidi di Marriott. Indispensabili erano le punteggiature di tastiere di Jimmy Winston ma ancora di più quelle di Ian McLagan, fanatico di Booker T & Mg's, che sostituì quasi subito Winston e fu responsabile dello sbarco del Memphis sound a Londra.. Small Faces raggiunse il terzo posto e stette per sei mesi nelle classifiche di vendite del 1966. Crudo, sanguigno, sporco ed effervescente è un album ancora fresco, pieno di ritmo e di beat, di focoso soul e intrigante pop elargito con l'urgenza di chi è giovane, sfrontato e mod. Due CD e un party che non si dimentica tanto facilmente.
Nel maggio del 66 gli Small Faces si erano spostati a vivere al 22 di Westmoreland Terrace a Pimlico, zona meridionale di Londra poco distante da Brixton. L'avevano trasformata in una casa-ufficio dove invitavano discografici, amici, fotografi, musicisti come Paul McCartney e Mick Jagger, un luogo in cui rintanarsi e lavorare insieme. Pedina fondamentale per il loro successo fu il manager Don Arden, colui che aveva curato gli interessi di Gene Vincent in Inghilterra e dei Nashville Teens. Li mise sotto contratto nel 1965 per la Contemporary Records, credeva in loro, era protettivo, non aveva peli sullo stomaco, era un manager d'assalto e distribuiva mazzette ai dj in modo che i primi 45 giri degli Small Faces  girassero nelle radio pirata. Fu lui a portarli dall'East End al Westmoreland Terrace, fu lui a dare carta bianca ai quattro affinchè si costruissero una immagine con gli abiti di Carnaby Street. Spesero  più di quanto guadagnassero, alla fine del 1966  si ritrovarono in bancarotta, senza un quattrino e con la netta sensazione che i proventi delle royalties se li fosse spesi Arden  grazie al suo stile di vita  hip.  Arden faceva la bella vita mettendo sotto torchio i quattro musicisti che lavoravano senza sosta passando da una session di registrazione ad un set fotografico, da una intervista ad uno show vivendo talmente di corsa da non accorgersi del turbinio creativo della  Swingin' London. In più Arden buttò sul mercato il singolo My Mind's Eye ancora prima che fosse rifinito. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. All'inizio del 1967 il gruppo licenziò Don Arden e si accasò con la neonata Immediate Records di Andrew "Loog" Oldham, etichetta intraprendente nata sull'esempio di analoghe indipendenti americane come la Chess e la Motown. Ma due settimane prima che la Immediate pubblicasse il nuovo disco, Arden con la Decca mise in circolazione From The Beginning un album che accanto a cose già edite come Sha La La La Lee e What'cha Gonna Do About It raccoglieva materiale del primo periodo e soprattutto i singoli di successo del momento, la strepitosa All Or Nothing prima nelle classifiche UK, Hey Girl decima e My Mind's Eye anticipatrice con Yesterday, Today and Tomorrow dei risvolti beatlesiani e pop psichedelici del gruppo. Naturalmente ancora pulsava l'abrasivo soul di Marriott con una graffiante versione del classico di Marvin Gaye, Baby Don't You Do It, con Take This Hurt Off me di Don Covay, con You've Really Got A Hold On Me di Salomon Burke e con una bizzarra interpretazione di Runaway di Del Shannon ma agli occhi degli Small Faces  tutto ciò sembrò una ripicca di Arden che voleva bruciare sul tempo l'uscita del loro secondo album.  Il long playing originale  mono rimpolpato di bonus tracks, tra cui il singolo I Can't Make It/Just Passing ed un secondo CD con la versione stereo oltre a un pò di alternate mix e differente version, cinque delle quali completamente inedite, costituiscono il materiale dell'edizione Deluxe di From The Beginning.
L'apertura verso le droghe lisergiche, atteggiamento condiviso da Beatles e Stones e l'emergere di un sound psichedelico nonchè la spregiudicatezza di Andrew Loog Oldham portano gli Small Faces ad un cambio di stile. Lo si avverte ancora prima che il nuovo album esca, con il singolo del giugno 1967 Here Comes The Nice la più sfacciata ode ad uno spacciatore di droga che sia mai entrata in classifica. Quattordici sono le tracce che compongono la scaletta del terzo album, intitolato come il primo per la Decca Small Faces  e adesso riproposto in due CD, mono e stereo con tanto di bonus tracks (tra cui una inedita If YouThink You're Groovy) mono e stereo anche queste. Brillano tra queste Itchycoo Park singolo rivoluzionario, un suggestivo pop psichedelico inciso con l'uso dello phase-shifting, un particolare accorgimento applicato alla batteria che permetteva una sorta di eco-riverbero (poi usato da molti gruppi) e contribuiva ad aumentare la misteriosa atmosfera del brano, e l'altro singolo Tin Soldier un acido mix di rock e soul segnato dall' incredibile lavoro di Ian McLagan con tre tastiere (Steinway, Wurlitzer e Hammond), dal drumming potente di Jones, dalla voce sporca di Marriott e dal backing di P.P Arnold. Le chitarre graffiano e il sound creato da Glyn Johns, il miglior produttore inglese dell'epoca che, come nei dischi precedenti fungeva da ingegnere del suono, è perfetto per focalizzare il personale rock and soul della band.
L'album è diverso da quelli che lo hanno preceduto, ci sono fiati e ottoni in abbondanza, clavicembali e arrangiamenti orchestrali che testimoniano di uno spettro sonoro più ampio, tentativo di trascendere dalle limitazioni del pop. Corre l'anno 1967 e il pop è attraversato dalla rivoluzione psichedelica, escono, solo per rimanere in Inghilterra, Sgt.Pepper's, The Piper at the Gates of Dawn dei Pink Floyd, Their Satanic Majesties Request dei Rolling Stones, Mr.Fantasy dei Traffic. Gli Small Faces non vogliono essere da meno e cercano di indirizzare le loro influenze R&B verso il nuovo rock incorporando elementi diversi nel loro sound. A contrario di molti loro colleghi gli Small Faces non si ergevano a paladini del cambiamento, non volevano rivoluzionare il mondo ma solo far casino e divertirsi, la loro psichedelia era tenue e lunare. Nonostante ciò a cominciare da Small Faces affiora una vena più riflessiva nei loro testi, l'urgenza di Steve Marriott trova bilanciamento nella scrittura sensitiva di Ronnie Lane. Il risultato è un disco dove c'è di tutto: le loro radici nere e il pop da classifica, i flash melodici e le chitarre arrabbiate, i non sense e la nostalgia, gli strumentali  e le B-sides, le armonie alla Beatles e le marcette alla Kinks, il flower power di (Tell Me)Have You Ever Seen e il misticismo di Show Me The Way e Green Circles, esempio quest'ultima di  vibrazioni californiane importate nell'East End londinese, il surrealismo di Up The Wooden Hills To Berdfordshire  e il rozzo accento cockney di Marriott, gli ottoni di All Our Yesterday e il ritmo latin jazz di  Eddie's Dreaming che sa molto di Austin Powers. Troppa roba per essere un disco veramente riuscito, potrebbe essere il Between The Buttons della loro discografia, molte idee, non tutte a fuoco. Il 1967 è comunque un anno d'oro per la band, tre hits singles, due  classici sulla droga Here Comes The Nice e Itchycoo Park ed il rude Tin Soldier condensano in tre minuti tutto ciò che faceva grande gli Small Faces: l'emozione, il soul, l'equilibrio, la tensione e l'abbandono. Tre hits che danno lustro alla riedizione deluxe di Small Faces .
Già all'epoca di Tin Soldier, pubblicato nel dicembre del 1967, il gruppo si era messo a lavorare al nuovo disco rintanandosi con mogli e fidanzate su un barcone sul Tamigi, a Henley, in cerca dell'ispirazione giusta che venne quando una notte, accampati in un camping, furono "abbagliati" da una splendente mezza luna nel cielo. La partnership tra Steve Marriott e Ronnie Lane nello scrivere canzoni era giunta ad un punto ottimale tanto da far fatica a comprendere lo split out dell'anno seguente, le cose stavano comunque andando molto in fretta per chiunque se si pensa che in pochi mesi la guerra del Vietnam sarebbe arrivata al culmine, ci sarebbe stato il Maggio parigino e la Primavera di Praga e in aprile a Memphis Martin Luther King sarebbe stato assassinato. Il rock e il pop non furono esenti da tali scombussolamenti e dai venti di cambiamento,  il termine concept album prese piede nella produzione discografica, i Moody Blues con Days of Future Passed inaugurarono le infauste collaborazioni tra pop e musica sinfonica, il progressive era dietro l'angolo.
La Immediate di Andrew "Loog" Oldham non perse tempo, era una etichetta agile, dinamica, rivolta alle novità e sfruttò la presenza in scuderia dei quattro Small Faces come house-band per la registrazione di due singoli, If You Think You're Groovy di P.P Arnold e Would You Believe di Billy Nicholls e diede in mano due loro brani (My Way Of Giving e (Tell Me)Have YouEver Seen Me) a Chris Farlowe e The Apostolic Intervention per altri due singoli. L'anticipazione del nuovo album è però l'uscita del singolo Lazy Sunday. Cantata da Marriott in un comico accento cockney, la canzone non è molto dissimile da Autumn Almanac dei Kinks, con gli identici riferimenti alla noiosa vita domestica, al conformismo della società britannica, al paesaggio della provincia inglese evocata col canto degli uccelli e le campane della chiesa. Un bella caricatura della old england, non priva di humour ed ironia. In maggio viene pubblicato Ogdens' Nut Gone Flake, l'album più ambizioso nella discografia degli Small Faces oscurato dalla trovata della sua copertina circolare apribile in otto parti, ad imitazione di una scatola di tabacco dell'era Vittoriana dove venne cambiata la parola brown con gone. Negli intenti del gruppo doveva coniugare l'ascolto del disco con il fumo di una sigaretta di erba. Un disco innovativo certamente influenzato da Sgt.Pepper's e Majesties Request  per le sostanziali aperture sonore con una profusione di trovate strumentali, arrangiamenti ambient, armonie complesse e schegge psichedeliche. Già nell'iniziale canzone titolo ci si trova di fronte a qualcosa di completamente diverso, uno strumentale più appropriato alla soundtrack di uno spy movie che ad un disco degli Small Faces, uno scenario sonoro anticipatore di quel prog-rock esplorato in seguito dai Caravan. La cosa è maggiormente messa in evidenza dalle tracce Happiness Stan e The Fly contenute nel terzo CD della Deluxe Edition dove tra archi, clavicembali, violini e pianoforte sembra di stare in una suite di classica e nella jam strumentale Khamikhazi. La ricerca della novità non cancella però l'essenza degli Small Faces come dimostrano Afterglow ancora saldamente in mano a  Marriott e le out-takes Every Little Bit Hurts e Bun In The Oven una specie di personale Foxy Lady.  Long Agos and Worlds Apart è invece proiettata verso il surreale mood di I Am The Walrus dei Beatles, Rene inizia con una marcetta e finisce in jam e Song of A Baker scritta da Lane  sancisce il matrimonio tra un duro psycho-rock ed un testo contemplativo. Ma è la seconda facciata a disegnare i nuovi orizzonti, gli Small Faces combinano l'aspetto narrativo con la musica pop. La storia del giovane Happiness Stan è divisa in sei momenti ognuno dei quali introdotto dalle parole del maestro di cerimonia  Stanley Unwin, un comico della BBC famoso per le sue bizzarrie linguistiche. La storia si basa sull' "allucinazione" avuta dagli Small Faces nel loro rilassante soggiorno sul Tamigi: una notte Stan guardando il cielo ha visto che brilla solo metà della luna e allora parte per un viaggio alla ricerca della metà scomparsa. La storia si evolve come una favola tra poteri magici, giganti, voli pindarici ed un Mad John che spiega a Stan il significato della vita " la vita è proprio come una tazza di All Bran". Tutto questo ha come supporto sonoro una varietà di stili che abbracciano il folk psichedelico (Mad John), l'heavy-rock (Rollin' Over), il pop con una coda sing-along (Happy Days Toy Town), il rock underground (The Journey).  Il disco fu registrato in parte all'Olympic Studio a Barnes, nel sud-ovest di Londra e parte agli studi Pye e Trident nel West End con la fondamentale presenza di Glyn Johns che per tutto il lavoro incitò i quattro musicisti a sperimentare e ad andare oltre i loro clichè cosi da consegnare ai posteri un opera che ancora oggi è reputata tra le più originali di quella stagione del pop inglese, un disco che fornì ispirazione a più di una generazione di musicisti. Ogdens' Nut Gone Flake  oggi ristampato in tre CD, uno con la versione mono, uno con quella stereo e il terzo con le out-takes e le alternate version (c'è anche una Ogdens' Nut Gone Flake trattata phasing), salì in fretta le classifiche arrivando al primo posto il 29 giugno del 1968 e rimanendovi per sei settimane.
Un opera  innovativa, nel tempo in cui è stata concepita ha il merito di spostare in avanti il livello della creatività introducendo una serie di elementi tali da influenzare quello che verrà dopo. Le ristampe, al di là del materiale inedito che propongono, sono però fatte per essere ascoltate nel momento in cui sono pubblicate, assolvono ad un compito di memoria e testimonianza ma devono funzionare adesso perché se non fosse così basterebbe il vecchio originale vinile. Oltre al fatto di poter essere "utilizzate" e usufruite da coloro, in primis i giovani, che lo intercettano per la prima volta, senza diventare un monumento fine a sè stesso.   Detto questo, l'album più innovativo della discografia degli Small Faces ovvero Ogdens' Nut Gone Flake per le sue ambizioni di esperimento narrativo/musicale, sembra soffrire il tempo e l'età più del primo acerbo Small Faces, meno "costruito" e articolato forse ma ancora oggi fresco e fruibile. Succede spesso che album stilisticamente e culturalmente immagine di periodi storici  dalla simbologia  "forte" reggano meno di altri più trasversali e meno epocali. Come altri gruppi della fine sixties gli Small Faces trovarono difficile mantenere l' equilibrio costruito attraverso la loro storia e la loro musica, la strada era senza vie di uscita, non era possibile unificare nella loro musica e nelle loro relazioni tutte le diverse sfaccettature e possibilità di una industria discografica in rapida espansione. Non potevano essere ancora  contemporaneamente pop e rock , mainstream e underground, ruvidi e raffinati, leggeri e heavy, i contrasti sarebbero stati messi in evidenza nel conclusivo The Autumn Stone (un peccato tralasciarlo in questa operazione) ma poi i nodi sarebbero venuti al pettine e Steve Marriott avrebbe liberato il proprio boogie dando vita agli Humble Pie mentre gli altri tre avrebbero imbarcato Rod Stewart per continuare come Faces. Alle spalle rimane lo straordinario catalogo, riepilogato da queste quattro Deluxe Edition curate nella rimasterizzazione e nella compilazione, che testimoniano di un momento felice ed eccitante di libertà ed ambizione oltre ad offrire una ampia gamma di influenze a tanti successivi british rockers, dai Led Zeppelin ai Sex Pistols, dai Jam ai Britpoppers. Questo è quello che ci hanno lasciato gli Small Faces.

MAURO ZAMBELLINI