lunedì 30 gennaio 2012

James Maddock Band all'Una e Trentacinque circa di Cantù


Serata calda anzi caldissima all' Una e 35 circa di Cantù, uno dei pochi club rimasti a fare questo tipo di spettacoli, per il ritorno di James Maddock, questa volta con tutta la band. Un po' di mesi fa il simpatico James si era esibito col solo aiuto del mandolinista David Immergluck (John Hiatt, Cracker, Counting Crows) ed aveva incantato per come aveva tenuto la scena sciorinando una voce  degna di un Rod Stewart giovanile ed un senso della melodia fuori dal comune. Con il supporto di tutta la band, la stessa  del favoloso Live at Rockwood Music Hall, la festa è stata totale e le sue magnifiche canzoni hanno brillato in tutta la loro bellezza trasmettendo dolcezza, gioia, sentimento, coinvolgendo la platea in uno di quei miracoli che solo il rock riesce a fare, quando non sei più solo coi tuoi problemi e i tuoi pensieri ma fai parte di una collettività che vibra all'unisono sulle corde di un condiviso coinvolgimento emotivo. Non è una sintonia che si crea ad ogni concerto ma James Maddock è riuscito nel miracolo grazie a canzoni dal feeling irresistibile, costruite con la mano del sapiente artigiano, ricche di mood e dinamica, che crescono piano e piano e si sviluppano come delle ballate rock che alla fine ti lasciano estasiato e senza fiato. Grazie anche ad una voce che fonde un senso della melodia in cui si ritrovano le atmosfere del Van Morrison meno accademico ed una facilità nel comunicare da songwriter di razza. James Maddock ha sensibilità  e talento, cose difficili da trovare in un colpo solo eppure è uno che naviga nei piani bassi del rock perché snobbato, ignorato dai media e dall'industria discografica. Proprio qui sta il bello, artisti come lui sfuggono ad ogni calcolo di marketing e allora i pochi a godere del suo gesto e del suo talento sono quel  piccolo, inossidabile, mondo sotterraneo del rock n'roll, come lui ai margini perché non visibile, disperso, non un target di mercato se si eccettuano le sparute vendite di certi dischi più che altro confinate alla nicchia dell'importazione e delle piccole etichette. Un mondo che  non ha simboli, segni di riconoscimento, divise e quant'altro, non è una tribù del rock ma solo gente che per una sera butta all'aria la propria normalità e si sente coinvolta in un atto meraviglioso che gli rallegra la vita meglio di una scopata.  Certo questo mondo non è cretino e ha orecchie pulite e raffinate perché l'eroe potrà essere sconosciuto a media e business ma non è uno qualsiasi, è uno che canta da Dio e ha canzoni che artisti di serie A neanche si sognano.


 James Maddock è uno che ha la melodia nel sangue e la voce roca al punto giusto, evoca una stagione gloriosa di songwriters newyorchesi e urbani, quella dei primi Willie Nile, Steve Forbert, Dirk Hamilton, senza essere un clone e pare un regalo degli anni settanta a questi bui anni di crisi per come intreccia canzone d'autore con soul bianco e rock delle backstreets. La sua band è brava e commovente, il bassista Drew Mortali potrebbe essere per faccia da schiaffi e taglio di capelli il fratello di Jesse Malin, tiene il tempo con impegno, beve whiskey ed in qualche canzone fa il verso a Maddock.  David Immergluck, il più noto della cricca, nella baraonda elettrica del piccolo Una e 35 circa si sente poco ma il suo mandolino c'è e spruzza aromi roots, il batterista Chris Farr è il tipico della porta accanto ma è diligente e preciso nel drumming, il chitarrista John Shannon sta dietro a tutti, quasi non si vede  ma poi al momento buono la sua Telecaster morde un ruvido rock metropolitano cresciuto ad ascolti di Because The Night, il pianista Oli Rockberger all'inizio fa fatica a sintonizzare le sue tastiere ma quando ha finalmente trovato i toni giusti parte in quinta e non si ferma più. Diventa magistrale, dirompente,  un folletto sui tasti che non smette un attimo di divertire e divertirsi, prende la melodia della canzone creata da Maddock e la trascina lontano in posti dove non oseresti credere che un tipo così giovane e qualunque, con la t-shirt sbiadita da cento lavaggi, il berretto da marinaio sulla crapa pelata e la faccia da kayakista del Vermont potesse portarla. E' il Lavezzi (quello del Napoli non Mario)  della band, imprevedibile, vulcanico, pindarico, fantasioso, l'uomo giusto al fianco di Maddock, alla sua chitarra acustica, alla voce arrochita dai club e dal whiskey, alla sua armonica intrisa di Dylan e Springsteen.
Il set è eccezionale, Maddock si butta dentro la canzone fino al cuore, sorride, parla col pubblico, si piega con la chitarra come un rocker, sussurra e si impenna, tiene la scena per due ore e 50 minuti come un Boss di provincia, la band gli va dietro, sottolinea i momenti più intimisti e melodici ma poi si scatena in un rock n'roll  duro e romantico, classico e sanguigno,  che in diverse tracce fa venire in mente i Counting Crows. La gente è in visibilio, si muove, applaude, canta, grida, non perchè sia generosa ma perchè profondamente conquistata da uno show che è un vero mercoledì da leoni. Ci sono tutte le canzoni del live, da Chance a Never Ending, da Stars Align a Fragile, da When The Sun's Out a Hollow Love a Dumbed Down ripresa e cantata da tutto il pubblico, fino ad una ispiratissima Sunrise On Avenue C esibita a due col solo Immergluck. Oltre a queste un pò di canzoni dell'ultimo album Wake Up and Dream tra cui Beautiful Now scritta con Mike Scott, la splendida Stella's Driving  e Living A Lie, conferma di uno scrivere che continua ad essere ispirato e lirico.  Grande show, grande serata, grande Maddock. Peccato che la Brianza è quella che è e tornare a casa è peggio che attraversare Città del Messico.

MAURO ZAMBELLINI      25 gennaio 2012
foto di Elena Barusco

1 commento:

Alexdoc ha detto...

Anche se non ho potuto esserci, sono contento che i live facciano conoscere l'autore di alcuni tra i miei dischi preferiti degli ultimi anni. Grande James, inglese innamorato dell'America, e grande Zambo a raccontarlo. E grande Oli, che più che Lavezzi molto semplicemente è il suo Roy Bittan.