lunedì 31 dicembre 2012

MY BEST 2012 IN MUSIC


Non è stato a mio modo di vedere un anno particolarmente fertile e creativo almeno per quanto riguarda i territori musicali che abitualmente bazzico ed è il secondo anno che va così, una ragione ci sarà oltre al mio invecchiamento e alle mie emozioni sempre più difficili. Non mi si venga a dire che il rock è morto, l'ho già sentito tante volte ed è una cantilena cretina. In ambiti di musica indie riferiscono che la scena è sana, io ci credo a stento perché le ultime band in grado di assurgere a giusta celebrità uscite dal girone giovanile sono stati i Radiohead e Wilco ( quest'ultimi grandissimi anche quando non fanno un disco nuovo ma  concerti memorabili come quelli di Milano e Torino) e di anni ne sono passati parecchi. Il fatto è che i dinosauri resistono e non vogliono andare in pensione così il ricambio è arduo. Neil Young con Psychedelic Pills ha fatto un disco, anzi un mezzo disco, il secondo, commovente , Bob Dylan con Tempest ha trovato visioni grandiose, Van Morrison, chi l'ha sentito ne dice bene, Springsteen ha spezzato la mediocrità dei suoi ultimi dischi in studio con un intenso, amaro ma lucido Wrecking Ball, Tom Petty ha suonato il miglior  show dal vivo di rock n'roll dell'anno, Ian Hunter ha dato seguito al bellissimo Man Overboard con l' eccellente When I'm President, John Hiatt va avanti per la sua strada e con Mystic Pinball ha fatto tris,  l'ultimo di Graham Parker dicono che sia il suo migliore da ventanni a questa parte anche con quella deprimente copertina (vi sarete accorti che la crisi ha colpito anche i recensori e c'è stata una stretta non indifferente negli acquisti, poi diciamocela tutta, i concerti costano troppo così che essere rockisti oggi è divenuta una pratica di lusso quasi come giocare a golf), Mark Knopfler ha realizzato, Privateering, un disco splendido per atmosfera, tecnica strumentale, calore  rilassatezza. Per gente un po' più giovane come i Black Crowes è solo stata questione di lifting, il leader Chris Robinson ha pensato bene di tornare al vintage e assieme al chitarrista Neal Casal, al tastierista Adam McDougall, al bassista Mark Dutton ed al batterista George Sluppick ha messo in piedi  Chris Robinson Brotherhood con cui ha potuto finalmente soddisfare i propri sogni ovvero stabilirsi a San Francisco, comprarsi incenso, patchouli e camicie a fiori  e suonare fino alla nausea ballate di new cosmic Californian sound con in testa i Grateful Dead di Wake of The Flood. Due dischi in un solo anno sono forse troppi ma se il visionario e lisergico Big Ritual Moon con echi perfino di Pink Floyd ed il  più aspro e rocknrollistico The Magic Door fossero stati assemblati assieme, qualcuno, anche tra i più anziani, sarebbe corso a comprarsi un acido per volare nel passato.

mercoledì 19 dicembre 2012

IAN HUNTER life after glam



life after glam  
Adesso che Ian Hunter è tornato in auge grazie agli ottimi Man Overboard  e When I'm The President il suo catalogo viene preso di mira e la sua carriera viene setacciata con grande gioia dei vecchi fans che magari posseggono vinili ormai gracchianti e, si spera, dei neofiti che così potranno apprezzare uno dei rocker inglesi più originali e versatili. In particolare sotto i riflettori sono i dischi che segnano il passaggio dagli anni settanta agli ottanta, un momento particolarmente felice per l'artista dopo l'avventura coi Mott The Hoople e l'inizio della carriera solista. Già nel 2009 c'era stata la ristampa in edizione Deluxe del suo immenso You're Never Alone With a Schizophrenic, espanso con un po' di out-takes e con un intero CD live,  adesso invece arriva un cofanetto di 4CD From The Knees of My Heart che raccoglie lo stesso disco più il potente live Welcome To The Club del 1980, il controverso Short Back n' Sides dell'anno seguente e sotto il titolo di Ian Hunter Rocks la cronaca di uno show al Dr.Pepper Festival di New York nel settembre 1981 pubblicata negli anni ottanta solo in video e subito scomparsa dal mercato. Considerato che tutto questo malloppo costa come un singolo CD è lecito giustificare  l'ulteriore riproposizione di Schizophrenic qui incluso per raccontare in modo completo quel periodo della carriera  di Ian Hunter.

Quando Hunter registrò Schizophrenic aveva alle spalle il successo con uno degli inni del glam, All The Young Dudes ed una carriera solista che tra alti e bassi aveva offerto l'interessante  All American Alien Boy,  il disco che lo aveva avvicinato al rock americano. Nel 1979 Hunter sfruttò la montante scena urbana dei songwriter elettrici, in particolare Springsteen e proprio negli studi dove questi registrò The River ovvero il Power Station di New York, con alcuni membri della E-Street Band cioè Roy Bittan, Gary Tallent e Max Weinberg più alcuni collaudati collaboratori tra cui il chitarrista Mick Ronson, mise a punto il suo capolavoro riuscendo a concentrare in uno stesso disco e al meglio tutte le sfaccettature della sua musica: le ballate al sapore di Dylan e il rock sguaiato e glam, il lunatico cantastorie del folk-rock e l' hard-rock duro e metallico derivato dai Kinks. Il risultato è schizofrenico ma superbo ed esaltante, sciabolate elettriche del calibro di Just Another Night e Cleveland Rocks si amalgamo a strepitose ballate urbane come Standin' In My Light e The Outsider, momenti di assoluta delicatessen come Ships si mischiano al sudicio glam da bassifondi di Wild East e Life After Death dove il pianoforte suona un honky tonk ambiguo e vizioso prima che la chitarra dia il via alla tosta ed incattivita Bastard, un titolo ed un crescendo che sono specchio di un rock n'roll selvaggio e ancora pericoloso. Non si è mai soli  con uno schizofrenico, questo disco è una delle leggende del rock metropolitano, qui rimpolpata delle bonus tracks contenute nella precedente versione Deluxe e qualche altro rimasuglio come The Other Side Of Life, prototipo di Just Another Night scritta dopo che Hunter fu arrestato per ingiurie e Indianapolis ed una primitiva versione di The Outsider.

mercoledì 5 dicembre 2012

the rolling stones


IS TIME ON MY SIDE ?

Festeggiare le nozze d'oro con l'ennesima antologia di successi sembra proprio una presa per i fondelli.  Si sa gli Stones amano prenderti per i fondelli col sorriso sulle labbra anzi con la lingua fuori e allora gli basta un Grrr!. qualsiasi. 48 brani storici più due inediti, One More Shot e Gloom and Doom registrati la scorsa estate a Parigi, esce in versione normale,standard, deluxe, superdeluxe, vinile e chi più ne ha ne metta. Da sette anni non incidono un disco di canzoni nuove e questo Grrr! più che il titolo del disco sembra il verso dei fan incarogniti per l 'ennesima antologia. Per fortuna non è tutto qui, c'è anche il film Crossfire Hurricane di Brett Morgen, un rockumentario che documenta l'ascesa dei Rollling Stones attraverso i periodi chiave della loro incredibile avventura e il suggestivo dvd Charlie Is My Darling, esiste anche un formato deluxe molto caro con cd e libro annessi, che testimonia la loro arrembante tourneè irlandese del 1965 quando erano ancora dei pischelli foruncolosi e Satisfaction era appena uscito. Consigliato. Ma non è tutto qui, come si sa ci sono le "stellari" esibizioni dal vivo all'O2 di Londra e a Newark, l'ultima data sabato 15 dicembre è possibile vederla a pagamento su Sky in the middle of the night, ma a quanto mi è capitato di vedere e sentire  via you tube non è certo uno  show da ricordarsi in eterno, anzi i quattro, no cinque anzi sei perché c'erano anche Wyman e Taylor in un paio di pezzi, mi sembrano un po' sgangherati  pur con qualche gancio rock n'roll.

La domanda  a questo punto che mi viene sponanea è, ha diritto una rock n'roll star over sessanta o anche di più  salire  sul palco e suonare ancora rock n'roll senza risultare ridicolo e patetico ? La risposta è si, se riesce a fare quello che fa Springsteen (un mostro) o, con qualche titubanza, Dylan o Ian Hunter (dignitosissimo), altrimenti è bene chiudersii in uno studio di registrazione, lavorare, incidere un disco di nuove canzoni e portarlo in giro in tutta umiltà come un bluesman in un teatro, in una piccola venue dove non c'è tutta l'enfasi e la grandiosità dello stadio o di un palazzetto. Fare come i bluesmen insomma, come Muddy Waters (morto a settanta anni però),  ridurre il clamore, azzerare la pomposità, andare  di basso profilo. Mica un gioco da ragazzi se ti chiami Jagger o Richards e appena ti muovi sono in centomila a seguirti e se fai un concerto in un teatro il biglietto costa come una Golf. E allora, che dire, chiedo a voi che seguite il rock e gli Stones, cosa fare per il rock over sixty ?  Fare come dice Renzi e rottamarli tutti, consigliarli il golf mentre fischiettano Satisfaction o Whola Lotta Love o farsi venire il magone vederli cantare Honky Tonk Women sperando nell'ultimo colpetto ed ignorare che il tempo non aspetta nessuno, né loro né noi, come diceva il titolo di una strepitosa ballata delle Pietre Rotolanti ?

Per il momento la soluzione ce l'ho ed è quella di invitarvi a procurare  il succulento  materiale che la band ha finalmente reso disponibile in rete in questi ultimi mesi. Sono quattro strepitosi concerti relativi a diversi periodi della loro carriera. Il primo, uscito un anno fa, è The Brussels  Affair ottanta minuti di rock al serramanico del tour europeo dell'autunno del 1973, la data è quella del 17 ottobre alla Foret Nationale di Bruxelles in Belgio. Concerto registrato da Andy Johns e rimixato da Bob Clermountain, da sempre mitizzato dai bootleg pubblicati, ora reso disponibile con una resa sonora quasi perfetta. Fotografa gli show di quel tour seguito alla pubblicazione (un mese prima) di Goats Head Soup. Non siamo ai livelli degli show di Ladies and Gentlemen ma poco ci manca. Si parte con Brown Sugar seguita da una traballante Gimme Shelter, dalla accoppiata Exile  di Happy, cantata da Richards e Tumbling Dice, ottima versione e dalle nuove Star Star, Dancing With Mr.D e Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker) che nel tour dell'anno prima erano assenti. Lo show entra nel vivo  con una delirante e lunga versione di You Can't Always Get What You Want, per poi involarsi in un finale con una bluesatissima  Midnight Rambler (magnifica l'armonica, micidiali le chitarre),con  Honky Tonk Women, Jumpin' Jack Flash e Street Fighting Man, tangibile dimostrazione di una band in forma, con una propulsione funk dovuta alla presenza di Billy Preston, in qualche episodio fin troppo invadente con la sua tastiera (fastidioso il suo stridere in Street Fighting Man) e con la carica selvaggia espressa dai brani più lunghi. Sono gli Stones dei primi settanta, cattivi e pericolosi ma diversi da quelli destroy  del 1978, con Mick Taylor al top delle sue potenzialità e con uno stuolo di musicisti al seguito impegnati a infradiciare il sound di grassa black music. Alle tastiere c'è Billy Preston, Bobby Keys e  Trevor Lawrence si occupano dei sassofoni, Steve Madaio della tromba e trombone. L'unico momento di riposo dello show è Angie, chicche per amatori la veloce e "strombazzata" All Down The Line e il frenetico blues-rockabilly Rip This Joint  estratto da Exile.

John Pasch aveva realizzato l'irriverente e spiritoso poster del tour che è anche la cover  di questo bootleg ufficiale Brussels Affair (Live 1973).

lunedì 26 novembre 2012

LED ZEPPELIN

CELEBRATION DAY

La reunion dei Led Zeppelin all'O2 Arena di Londra il 10 dicembre 2007 è stato un evento che ha generato un interesse ed un'attenzione fuori dalla norma tanto che ne è stato  fatto un film proiettato in anteprima nelle sale di tutto il mondo il 17 ottobre scorso. Chi ha visto il film o ha avuto la fortuna di partecipare direttamente allo show ha avuto parole entusiaste, io mi limito a recensire, all'oscuro della parte visuale, il doppio CD audio che ne è stato ricavato. 16 brani tra i più famosi del repertorio dei Led Zep, il grande inizio con Good Times Bad Times e Ramble On rispettivamente dal primo e dal secondo album del gruppo e poi via con il riff torcibudella di Black Dog qui in versione granitica da far impallidire i Gov't Mule e la tempesta elettrica di In My Time Of Dying con Jimmy Page che si diverte a slidare e distorcere prima che la sezione ritmica diventi una acciaieria.  For Your Life è muscolosa  come mai, con la batteria implacabile di Jason Bonham, degno figlio del padre, il martello degli Dei,  Trampled Under Foot, ripescaggio di Physical Graffiti, è contrassegnato dal lavoro di tastiere di John Paul Jones, forse il più fresco dei tre originali Zeppelin. Robert Plant ha difatti perso il suo falsetto giovanile ma riesce a stare al gioco con l' abilità del grande cantante, la sua voce è più aspra e disperata ma riesce a far volare alto il dirigibile anche se ormai sembra più a suo agio in lavori meno "esuberanti" tipo il disco con Allison Krauss e quello con Band Of Joy, Jimmy Page è quello più invecchiato di tutti, non tanto per i suoi capelli bianchi ma perché il suono della sua Gibson ha perso lo smalto e la limpidezza di un tempo. Gioca di forza e di durezza, il suono è sporco, cruente e monocorde, non c'è l'eleganza di una volta quando pur in mezzo alla tempesta di watt sapeva essere lirico, fantasioso, geniale. Oggi è solo la copia di se stesso, ad alcuni può anche bastare visto che l'originale è un musicista che tra il 1972 ed il 1975 è stato il miglior chitarrista sulla faccia della terra, almeno per quanto riguarda il rock, ma dopo un'ora non ne puoi più della sua violenza  e delle sue raffiche.

sabato 17 novembre 2012

CHEAP WINE BASED ON LIES


 Nasce, come dice il cantante Marco Diamantini, nel periodo più brutto della loro esistenza il nuovo disco dei Cheap Wine e i testi cupi, a tratti pessimisti ma profondamente ancorati alla precaria situazione sociale traspongono questo stato d'animo. Ma i Cheap Wine sono un grande gruppo rock e sanno che solo con una sferzata di energia, delle canzoni che siano di tutti ed il sano rumore delle chitarre ci si può opporre alla barbarie e alle menzogne che girano attorno perché loro non sono ne dei politici ne dei pifferai magici, il che spesso è la stessa cosa ma una real and true  rock n'roll band e allora Based On Lies è qui col suo carico di resistenza umana e artistica, con le sue ballate che  offrono nuovi orizzonti, con il suo rumore terapeutico. Sono pochi in Italia tra quelli che hanno scelto di rimanere veramente indipendenti ad essere arrivati al nono disco, i Cheap Wine ci sono riusciti e questa è già  una dichiarazione di forza, caparbietà e tenacia. Unite poi la loro bravura sugli strumenti, la loro onestà intellettuale ed una evoluzione che li ha portati fin dove sono arrivati e avrete, come già detto in passato, una band che non teme confronti nemmeno sul piano internazionale. Non era facile dare un seguito a Spirits un disco che ha avuto una accoglienza sensazionale e i Cheap Wine si devono essere sentiti un po' ad un bivio, continuare su quella strada o cambiare radicalmente. Hanno scelto di seguire l'istinto, non hanno fatto calcoli e tra le canzoni registrate hanno scelto quelle che piacevano di più a loro senza pensare ad altro. Certo l'ombra di Spirits si allunga su diversi brani del nuovo disco ma alla fine  Based On Lies ha finalmente raggiunto la quadratura del cerchio: ci sono le ballate con degli squarci melodici mai così tersi e chiari e c'è l'irruenza del loro tagliente rock n'roll elettrico, ci sono gli arrangiamenti e le sfumature del pianoforte del bravo Alessio Raffaelli elemento cardine nella loro evoluzione sonora e ci sono i ganci elettrici e visionari di Michele "psychotic razor blade" Diamantini, c'è il pulsare di una sezione ritmica che è una garanzia e c'è la voce, la chitarra acustica ed il songwriting  di Marco che tengono fermi i riferimenti verso un sapiente folk-rock di matrice urbana. Con Based On Lies i Cheap Wine sono ormai pronti ad allargare l'audience senza dimenticare i vecchi fans. Alcuni brani come Breakaway, Waiting On The Door, la country-eggiante The Big Blow, la stessa Based On Lies hanno l'appeal e la schiettezza per poter ottenere  una giusta attenzione da parte dei media radiofonici se l' Italia non fosse, in tal senso, quel paese di merda che é e ci sono brani come The Vampire davvero tosti, a me ha fatto venire in mente il disco di Lou Reed con i Metallica, o To Face A New Day  dove viene fuori il fragoroso Neil Young and Crazy Horse pensiero con un assolo leggendario di Michele o The Stone  una ballata segnata dal banjo e da una coralità vocale che  spinge verso gli Appalachi. Senza dimenticare il graffio punk alla Freak Show di Give Me Tom Waits ed il pianoforte di Alessio che jazzeggia nella canzone che dà il titolo all'album e classicheggia in On The Way Back Home.  Magari Based On Lies per alcuni potrà non essere il miglior disco dei Cheap Wine ma è sicuramente il più completo, quello che esprime tutte le loro sfaccettature.

MAURO ZAMBELLINI    


giovedì 8 novembre 2012

THE BIG EASY


Finalmente a New Orleans, non che la regione cajun ci abbia stancati ma dopo una settimana born on the bayou era naturale saltare in città anzi nella città più musicale del mondo dove la musica è dappertutto e come scrive John Swenson nel suo bellissimo New Atlantis-Musicians Battle for the Survival of New Orleans-viene fuori dalla terra perché è qualcosa che ha a che vedere con le vibrazioni della terra. La terra qui è una combinazione di elementi, il fatto che tanta di essa sia sotto il livello del mare, la sua storia come città di porto e portale nell'emisfero occidentale per europei e africani e poi milioni di persone che hanno vissuto qui nel passato. E' come fosse la Costantinopoli del Nuovo Mondo, ogni cosa qui è esagerata. La bellezza è esagerata, la povertà è esagerata, così la brutalità, la musica, il cibo. Se sei una persona con i sensi acuti tutto questo non lo devi cercare, lo senti addosso. Ero già stato a New Orleans una prima volta nell'inverno 1994 proprio nei giorni in cui scompariva Ylenia Carrisi la figlia di Romina Power e Al Bano, era gennaio, l'aria era fredda e la città non era per niente sicura, al di fuori del Quartiere Francese, oltre North Rampart Street, che è una specie di spartiacque tra il Quartiere Francese e i quartieri sobborgo, di sera bisognava stare attenti, addirittura un taxista si rifiutò di portarmi nella zona dove una volta sorgeva Storyville perché, a suo dire, a lot of guns. Sono tornato nel 1999  inviato da una casa discografica per un servizio sul redivivo George Thorogood. Il bluesman del Delaware tornava dopo alcuni anni di silenzio con l'album Half A Boy/ Half A Man e lo presentava alla stampa internazionale all' House of Blues di New Orleans in quello che sarebbe stato uno show tutto muscoli e slide. A quel tempo andava di moda Marylin Manson tra i giovani americani e la stessa Anne Rice coi suoi romanzi sui vampiri aveva un certo seguito, il che spiega la fauna strana ed un po' inquietante che bazzicava la città. Mi ricordo un locale, una enorme cafeteria dove andai un paio di volte incuriosito dal suo pubblico e dal buon caffè che facevano, il Kaldi's in Decatur Street che ora non esiste più,  pieno di gente con gli occhi gialli e i canini appuntiti perché quello era il look di tendenza e chi lo portava non erano certo fighetti da discoteca ma figuri di un mondo parallelo che quando li si incrociava di sera lasciavano addosso un certo non so che. New Orleans è così, città di santi e peccatori, di feste e  cimiteri, di sesso e voodoo, di bellezza e squallore, di vita e di morte, anche adesso che all'occhio del turista sembra una città del tutto normalizzata qualcosa di difficile da afferrare nasconde tra le sue case. Basta passeggiare di sera nella silenziosa ed elegante Royal Street, una sequenza di atelier, gallerie, antiquari, negozi di vestiti (non firmati ma sartoriali), maschere, oreficerie, negozi antichi e vintage, lampioni a gas e si è in mezzo ad un concentrato di bello che nemmeno Parigi ha in così poco spazio ma anche qui ad un solo blocco dalla caciara pulp al profumo di vomito che è Bourbon Street è possibile cogliere la magia non sempre rassicurante di una città che nasconde i suoi segreti. Non c'è nessuno quando ci passeggio di sera tardi, solo qualche frettoloso passante, i negozi sono chiusi e si può osservarli nella loro quiete, la luce fioca dei lampioni rende l'ambiente ottocentesco, New Orleans è una città soffusamente illuminata anche nelle arterie principali, l'oscurità penetra nei vicoli, c'è fascino e mistero in Royal Street, chissà cosa doveva essere alla fine del XIX secolo nei giorni dell'assenzio. 

mercoledì 31 ottobre 2012

quel treno per Houma






Naturalmente non è la Yuma del celebre film western con Glenn Ford  e nemmeno ci andiamo in treno ma con la nostra berlina Yaris noleggiata all'aeroporto di New Orleans. Houma sta proprio in fondo alla Louisiana a poche miglia dal Golfo del Messico e per arrivarci bisogna percorrere un bel tratto della Highway 90 tra foreste, bayou, ponti, paludi, procioni morti sul ciglio della strada e cittadine con incantevoli viali alberati (la più graziosa è Jeanerette) a cui fianchi brillano belle e signorili abitazioni bianche in stile creolo con veranda, balconi e giardino. Sulla strada si incontra New Iberia che per gli appassionati di gialli e noir è la patria del detective Dave Robicheaux, la creatura inventata dallo scrittore James Lee Burke (nato a Houston ma cresciuto in Louisiana), il quale ambienta le sue storie di malaffare, corruzione e redenzione da queste parti, tra il bayou Teche e New Orleans. Per chi non lo conoscesse consiglio almeno sei titoli, Piccola Notte Cajun, Sunset Limited, L'Angelo in Fiamme,Ti Ricordi di Ida Roubin?, Prima che l'Uragano Arrivi e L'Urlo del Vento, questi due con Katrina sullo sfondo. C'è anche un bel film di Bernard Tavernier con Tommy Lee Jones da vedere, estratto da un suo romanzo ed è In the Electric Mist.


giovedì 25 ottobre 2012

LOUISIANA MON AMOUR




Due anni fa con l'amico Roberto, organizzatore dell'Ameno Blues Festival, come premio per aver raggiunto e guadagnato la pensione (un attimo prima della infausta riforma), sono andato nel Mississippi a vedere dove è nato il blues, il padre di tutta la musica che amo. Da Memphis siamo scesi a sud lungo la Highway 61 fino a Natchez, deliziosa cittadina al confine con la Louisiana dallo stile e dall' architettura francese sebbene ancora nello stato del Mississippi e locata sul fiume omonimo. Poi siamo risaliti verso Oxford, passando dalla tomba di Robert Johnson, ritornando a Memphis. Due anni dopo sempre con l'amico Roberto e con Nicola, fotografo e chitarrista blues, abbiamo proseguito il viaggio addentrandoci in Louisiana, per la precisione nella southern Louisiana a ridosso della mitica Highway 10, la stessa che ha dato il titolo ad uno degli album migliori dello slider Sonny Landreth. Non siamo ripartiti da Natchez perché non esiste aeroporto ma da New Orleans, arrivandoci di notte, dormendo in un motel vicino al Louis Armstrong International Airport e ripartendo by car il mattino seguente   verso la zona delle plantation che lambiscono la Hwy 10 e arrivano fino a Baton Rouge, cittadina industriosa e poco interessante a parte un locale in perfetto stile cajun chiamato Boutini's dove abbiamo finalmente assaggiato i gamberetti in hot sauce, bevuto birra ambrata ghiacciata (la Amida) e goduto del set a due di tale Lee Benoit, uno dei tanti Benoit della regione che con moglie, chitarra e fisarmonica suona cajun music cantata in francese. Il francese è la seconda lingua della regione, anglofilizzata ed impastata di gergo locale tale da diventare un dialetto proprio. La parlano in molti e ci si intende a meraviglia anche perché  i locali sono fieri delle loro origini e ci tengono a considerare questa parte d'America, la Acadia,  diversa dal resto del paese.  Si sentono i lontani discendenti di quella migrazione che dalla Nova Scotia in Canada è arrivata fin sulle coste del Golfo del Messico. Cajun è storpiatura di acadiens e loro sono ben felici di esibire una cultura, una storia, una musica ed una cucina tutta loro. Cucina che si traduce spesso in una fiera del fritto per quanto riguarda gamberi, crawfish, ostriche e granchi e che offre una selezione di salse  di indubbio potenziale atomico per quanto riguarda le tonalità del piccante. Potete comunque salvarvi il fegato sapendo che si può evitare il fritto ricorrendo all'etouffèè e al boiled, sempre che il cuoco si impietosisca della vostra prudenza alimentare. Certo gli americani in materia non sono un esempio da seguire e lo ha capito madame Obama  con la sua rivoluzione dietetica a scuola perché, specie in provincia e nelle classi più povere, l'obesità  raggiunge ormai  il 50% della popolazione e la statistica non riguarda solo la comunità nera. Detto questo,  a Donaldsonville sulla strada per Baton Rouge c'è la Laura Plantation che è la più bella ed importante piantagione di tutta la Louisiana meridionale, creata nel 1805 da Guillaume Duparc e diretta per 84 anni dalla pronipote Laura Locoul, esponente di quella aristocrazia creola che ha lasciato un segno indelebile nella storia della Louisiana. Dodici edifici in legno restaurati, comprese le dimore degli schiavi neri, un giardino enorme, la raffinatezza francese, le piante con le banane e l'eco di Via col Vento. Nella sonnacchiosa Donaldsonville, un paesotto da Ultimo Spettacolo, ho rinvenuto un suggestivo DeVille bar, niente a che vedere con il nostro soulman preferito che anche da quelle parti è passato come un fantasma e quasi nessuno conosce mentre sempre sulle sponde del Mississippi, a St. Francisville, in una mattina radiosa come poche ho respirato quell'aria del sud di cui parlano tante canzoni. E' una delle più vecchie cittadine della Louisiana, vicino ci sono dei battleground della Guerra Civile  e sebbene oggi sia trasformata in una specie, ma più modesta, Mendocino del sud con tanto di cafè in stile europeo, piccoli negozi, librerie ed una pace che a me che vivo a ridosso di un aeroporto ed in mezzo "al progresso" urbanistico lombardo sembra un incanto, possiede quel fascino appartato e discreto dei luoghi in cui si rintanano gli scrittori a vivere e scrivere libri.  Quel po' di magia letteraria che spesso negli Stati Uniti si incontra nelle blue highways,  villaggi e paesi che offrono una qualità del vivere invidiabile. Niente musica però, almeno al mattino quando ci passiamo, tempo per un caffè all'italiana nel bel bar-salotto che ha visto suonare qualche settimana prima Mary Gauthier e via verso est passando da New Roads, mi ricorderò sempre il cocktail di gamberi gustato sulle rive del lago con uno Chardonnay americano insolitamente discreto e a buon mercato . Sole, cielo azzurro, temperature tra i 25 e i 28 gradi con leggere brezze rinfrescanti, sarà così per tutto il viaggio e allora si capisce come nel sud della Louisiana il mese top per festival musicali, gastronomici, letterari e feste di paese sia ottobre, senza il caldo impossibile e l'umidità dell'estate e con la possibilità di rimanere all'aperto anche di sera.

venerdì 5 ottobre 2012


MUSIC IS LOVE  a singer-songwriters' tribute to the music of CSN&Y

Raramente la discografia italiana ha prodotto un lavoro così ben fatto in termini di musica, di confezione, di note esplicative, di scelte artistiche. La passione per la musica di Crosby, Stills,Nash e Young ha indotto Ermanno Labianca, giornalista, discografico, autore di libri e fanzine su Bruce Springsteen, Francesco Lucarelli, musicista e Peter Holmstedt a concepire e produrre un lavoro che si staglia a livello internazionale per la qualità e la serietà del progetto. Music Is Love è un brillante anche se non altisonante tributo alla musica e alle canzoni di Crosby, Stills, Nash e Young. Attorno a loro è stato costruito un doppio Cd ottimamente registrato, elegantemente impacchettato e fornito di una ricchezza di note e di fotografia da far invidia ai migliori prodotti della Rhino. La passione scorre sotto il raffinato digipack in questione e la Route 61, la indie che lo  ha pubblicato, ha messo in campo  intraprendenza,  coraggio, gusto ed entusiasmo nel realizzare un lavoro che non è solo un elegante e curato oggetto estetico ma, come suggerisce il titolo, un atto d' amore verso la musica.
La celebre canzone di David Crosby del suo irraggiungibile If I Could Only Remember My Name serve da titolo ad un doppio Cd dove sono coinvolti cantanti e cantautori americani, irlandesi e inglesi, ognuno impegnato ad offrire la propria visione della musica di C,S,N&Y, canzoni tratte dal vasto repertorio dei quattro sia in gruppo, in trio, in duo, solista, coi Buffalo Springfield e coi Manassas. Il panorama è ampio e i due Cd invitano ad un viaggio che è un piacere dei sensi e della mente. I nomi dei singer-songwriters non sono tutti noti ma la lettura di ognuno è originale, sentita,  sincera, le registrazioni sono state fatte in studio a New York, in California, in Irlanda, a Londra, Liverpool e in vari centri degli Stati Uniti. Nel booklet interno ognuno dei protagonisti esplicita come sia entrato in contatto con la musica dei quattro ed il motivo della canzone scelta. La partenza è affidata a Ron LaSalle che con la sua voce roca offre una aspra versione folk-rock di For What It's Worth dei Buffalo Springfield, celebre e amato inno antimilitarista. Lo segue Steve Wynn con una spettrale e noise Triad , episodio che trova un giusto contraltare nella rilettura classica e toccante di Helplessly Hoping di Judy Collins aiutata dal piano di Russ Walden, dal basso di Tony Levin e dalle chitarre di Duke Levin. Della serie la classe non è acqua. L'irlandese Liam O' Maonlaì  ragala una rarefatta e nordica Lady Of the Island tratta, come la canzone della Collins, dal disco debutto di C,S&N.  Sugarcane Jane che altri non sono che la cantante Savana Lee Crawford ed il chitarrista/banjoista/cantante Anthony Crawford interpretano con taglio folkie e fingerpicking ma il finale è assolutamente psycho la stupenda Bluebird dei Buffalo Springfield mentre toh chi si rivede Karla Bonoff assieme alla collega Wendy Waldman e ai cantanti John Cowan e Mietek Szczesniak rifanno con inalterata delicatezza la sognante GuinnevereElliott Murphy con la sua band di normanni sceglie Birds di Neil Young imitato da Bocephus King con una stralunata e persa nel diluvio Down By The River mentre i Venice, due cugini californiani coi  rispettivi fratelli che di cognome fanno Lennon, regalano una non memorabile After The Goldrush. La figlia di Stephen Stills, Jennifer si cimenta con la band e degli arrangiamenti di pianoforte, violino e violoncello in Love The One You're With rallentandola nella prima parte e poi lasciandola scorrere come una avvincente melodia rock.
Fedele all'originale è You Don't Have To Cry di Sonny Mone, transitato per qualche tempo nei Crazy Horse, rigorosa nelle sue linee roots è Fallen Eagle, gran lavoro di mandolino, violino, banjo, chitarre da parte dei Coal Porters di Sid Griffin attenti a ricreare l'atmosfera bluegrass di uno dei brani chiave del favoloso Manassas.
Inizia con Rockin' In The Free World il secondo Cd e Willie Nile col suo trio ci mette la rabbia e l'elettricità  della New York  dei club, bella partenza per uno show che vede entrare in pista la rediviva Cindy Lee Berryhill, due album negli anni ottanta ancora in grado di raccontare l'America della strada con lo stile e lo charme della beat generation. Anche lei pesca da Manassas ed estrae  una It Doesn't Matter  forse troppo equilibrata per il suo carattere vagabondo. Clarence Bucaro col trio è melodico quanto basta in Out On The Weekend  uscito da Harvest, Neal Casal omaggia Graham Nash e suona tutti gli strumenti in Hey You (Looking At The Moon), ballata sotto la luna dolce come il suo autore, Carrie Rodriguez in band a quattro  regala uno dei momenti magici di Music Is Love, una rilettura dolente e ispirata di Cortez The Killer dove strumenti acustici ed una chitarra desertica si amalgamano  per una performance di grande intensità.
Meno noti sono il Marcus Eaton di Bittersweat, Andy Hill e Renée Safier (Thrasher), Louis Ledford (Wasted On The Way), Mary Lee's Corvette (Tracks In The Dust) ma qui c'è la produzione e la chitarra di quel volpone di Eric "Roscoe"Ambel e Jenai Huff ( I'll Be There For You). Ulteriori apprezzamenti vanno a Eileen Rose & The Legendary Rich Gilbert, la loro Just a Song Before I Go è piena di pathos, Nick Barker affronta Long May You Run con lo spirito di un solitario uomo dei boschi accompagnato da chitarre e mandolino, Michael McDermott abbraccia la cantante e violinista Heather Horton nel duetto di Southern Cross e il liverpooliano Ian McNabb chiude lo spettacolo con una Music Is Love che inizia come Sympathy For The Devile e poi ascende al cielo leggera e svolazzante come un falco del Tamalpais che libera le sue ali nell'azzurro della Baia. Una litania gioiosa e colorata, una coreografia vocale (tre le voci femminili) da peace and love and music nello splendido scenario della California good vibrations. Ci voleva un inglese per evocarla ed un tributo, Music Is Love a farci di nuovo sognare.
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MAURO ZAMBELLINI      

venerdì 28 settembre 2012


THE KINKS     AT BBC        

Nulla è mai stato così completo riguardo alle registrazioni della BBC  come questo The Kinks at the BBC. Questo box di sei dischi, cinque CD ed un DVD, esplicita il matrimonio tra due grandi istituzioni inglesi: i Kinks e la BBC. Per la prima volta vengono rese disponibili tutte le registrazioni avvenute negli studi e nei teatri della BBC sia per quanto riguarda il materiale radiofonico che televisivo. Il sesto disco del box set è difatti uno splendido DVD di eccellente qualità audio e video che per oltre tre ore e mezzo testimonia a livello visivo l'iter del gruppo, dalle prime innocenti apparizioni in bianco e nero degli anni 60 con You Really Got Me, una esaltante e negroide Got Love If You Want It capace di dare punti agli stessi Rolling Stones sul terreno del R&B, con l'immancabile e amatissima Sunny Afternoon e gli altri hit dell'era, e poi degli anni 70, tra cui lo splendido quadretto country di Have A Cuppa Tea, all'unico episodio degli "infamanti" anni ottanta con i Kinks glamour di  Come Dancing a Top of the Pops fino ai più anonimi anni 90 con Over The Edge, Informer e Scattered. Un DVD esauriente delle loro trasformazioni anche a livello di look, dagli imbarazzanti capelli a caschetto dei sixties a certe coraggiose cotonature anni settanta, dalle camicie color pastello di Ray Davies con tanto di farfallino rosa incorporato al dandysmo glam di Dave Davies  (che canta Death of the Clown) alla trasandatezza hippie dei primi settanta fino ai colori sgargianti e alle giacche di taglio largo degli anni ottanta. Ma le vere chicche del DVD sono gli estratti degli show dal vivo fatti per la BBC al Rainbow nel 1972 dove i Kinks con capelli lunghi, barbe, pantaloni a zampa sono a proprio agio nel regno rock creato da Stones, Who, Faces, Led Zep ma a contrario di questi propongono un concerto che è una specie di  teatrale cabaret rock senza la aggressività elettrica dei loro colleghi. Un concerto del 1973 porta invece in scena i Kinks dell'epoca Everybody's In Showbiz-Preservation Act dove il gruppo fa uso di una sezione di fiati mentre due altri show, The Old Grey Whistle Test e The Kinks Christmas Album entrambi del 1977 offrono un Ray Davies quasi cantautorale, a proprio agio con le ballate (incommensurabili Sleepwalker e Celluloid Heroes)e con la chitarra acustica senza per questo dimenticarsi dei graffi hard-rock di You Really Got Me e All The Day and All The Night. Siparietti all'interno dei due show trattano della virata working-class country di Muswell Hillbillies e del teatrino trash di Schoolboys In Disgrace con le coriste abbigliate da insegnanti sexy con tacchi a spillo e giarrettiere e Ray Davies con maschera nei panni dell'arrogante capitalista Mr.Flash.  Un DVD stellare che mostra reperti e concerti inediti.
La parte audio è costituita da cinque CD, il primo ed il secondo di rispettivamente 37 e 28 tracce recuperate dalle varie trasmissioni radio della BBC,  dal Saturday Club, da Top Gear, Symonds on Sunday, Dave Lee Travis Show e John Peel Show raccontano l'evoluzione del gruppo dal rauco proto punk degli inizi agli schizzi sociali e satirici del loro pop colto e adulto, in primo piano la  maturazione del songwriting di Ray Davies. In questi due CD c'è tutto il meglio dei Kinks fino al 1972 compreso quell'  Acute Schizophrenia Paranoia Blues (Muswell Hillbillies) che rimane uno dei loro migliori episodi blues.
Il terzo e quarto CD testimoniano dei Kinks anni settanta  quando gli hit si fecero più rari ma il loro culto rimase inattaccato. Le registrazioni arrivano dai vari John Peel Show, The Johnny Walker Show e Dave Lee Travis Show, da un concerto tenuto nel 1974 e dal The Old Grey Whistle Tour del 1977 già documentato dal DVD. Il materiale ha il pregio di evidenziare la vitalità di una band che seppe trasformarsi senza perdere quella eccentricità e quella fantasia che la rendevano unica nel panorama del pop inglese, anche con una montante indifferenza da parte del pubblico che in quegli anni chiedeva gesti ben più spettacolari e altisonanti come quelli offerti da Led Zeppelin e Who.
Se gli anni ottanta  sono rappresentati solo nel DVD con la marginale esibizione di Come Dancing a Top of the Pops, gli anni novanta occupano una parte del quarto CD e del quinto CD con l'ultima apparizione per la BBC in ordine di tempo nel 1994. Dal Johnny Walker Show arrivano la sottovalutata Phobia ed una magistrale ballata hard-rock da far impallidire i Metallica, Wall Of Fire oltre al famigerato rock n'roll di Till The End Of The Day, dall'Emma Freud Show una dolcissima Waterloo Sunset solo acustica ed una muscolosa I'm Not Like Everybody Else dimostrazione della doppia anima della band.
Completano il quinto disco una serie di fuori onda degli anni sessanta con una qualità audio decisamente inferiore al resto del materiale, eccellente in ogni sua parte.
Il progetto di raccogliere e rimasterizzare l'intero patrimonio BBC dei Kinks lo si deve a Andrew Sandoval, un'opera brillantemente "impacchettata" con un formato libro vintage in stile radio days, commentata dalle note dal giornalista Peter Doggett e arricchita da fotografie proveniente dagli archivi più esclusivi. The Kinks at the BBC è un monumento al genio di Ray Davies e ad una delle più grandi band della storia del rock inglese.  

  MAURO ZAMBELLINI   

sabato 22 settembre 2012

Woody Guthrieʹs Night - concerto per il centenario 1912-2012 -
HARD TRAVELIN'

WOODY GUTHRIE'S NIGHT   LEONCAVALLO   21 SETTEMBRE  2012
Lo vedi lì magro, ossuto, fragile con la chitarra con su  scritto "questa macchina uccide i fascisti" e pensi sia solo uno di quegli altri disperati magari anche comunisti che lui cantava, uno di loro, di quelli che fuggivano le tempeste di polvere dell'Oklahoma e del midwest per andare a cercare la terra promessa nell'ovest, in California, la terra del lavoro e del sogno americano.

Più tardi arriva a New York e la definisce "una città di poliziotti, predicatori e schiavi"  dove se Gesù predicasse ancora come faceva in Galilea, lo inchioderebbero di nuovo sulla croce. Testimonia la rinascita economico che il new deal porta nel depresso nord-ovest e scrive la sua canzone più famosa This Land Is Your Land che ancora adesso tanti americani credono sia una canzone patriottica. Vive le speranze antifasciste della seconda guerra mondiale, compone canzoni sulla storia del movimento operaio americano, canzoni per i bambini, canzoni sulla amata Ingrid Bergman perché  Guthrie non era un santo e nemmeno un eroe, gli piacevano le donne e il cinema, Stalin e il vino, era guascone e aveva un caratteraccio.  Vive gli ultimi anni alle prese con una terribile malattia del sistema nervoso, la chorea di Huntington che lo costringe infermo a letto in una clinica ma ancora lucido. Sentendo le sue canzoni ci si accorge che l'America di allora è ancora così adesso ed è forse la ragione perché ci sono stati così tanti Woody's children, figli di Guthrie, a cominciare da quel tipetto arrivato dal Minnesota a trovarlo quando già era ammalato in clinica. Scrisse per lui Woody's Song si chiamava Bob Dylan anzi Robert Zimmermann e trovò nella musica di Guthrie un linguaggio semplice e diretto per parlare della dignità dell'essere umano, la cosa più grande della vita come diceva sempre Woody. Poi arrivarono tanti altri, Phil Ochs, Billy Bragg, Bruce Springsteen, Steve Earle, John Mellencamp, Ani Di Franco, Utah Phillips, qualcuno noto altri sconosciuti, tutti a cantare una musica che potesse migliorare la vita e gli esseri umani.
Cantare le sue canzoni senza dimenticare le sue ragioni questo è il messaggio che ha lasciato Woody Guthrie e Veronica Sbergia (ukulele, autoharp,voce), Max DeBernardi (chitarre e voce), Massimo Gatti (mandolino) e Dario Polerani (contrabbasso) hanno ricordato attraverso un concerto imperniato sulle sue canzoni, un set toccante e coinvolgente dove il materiale di Guthrie è stato interpretato con spigliatezza e freschezza nonché  con l'usuale bravura tecnica del quartetto. Il feeling, le voci e gli strumenti hanno contagiato il centinaio e più di presenti, trasformando il Leonka in un club dell'East Village. Suoni cristallini, impasti  vocali magnifici, l'atmosfera pura del folk senza le pesantezze del rigore a tutti i costi, anzi il brio e l'ironia che anche Guthrie metteva nella sua musica e che Max, Veronica, Massimo e Dario hanno riversato nelle loro interpretazioni. La Woody Guthrie's Night di venerdì 21 settembre al Leoncavallo,  un appuntamento snobbato da molti addetti ai lavori che si precipitano non appena è di scena l'ultimo degli sfigati d'oltreoceano ma non si accorgono che alle nostre latitudini c'è chi interpreta la roots music ad un livello eccellente, è stato il modo migliore per ricordare e far conoscere uno dei più grandi poeti della musica popolare americana. Sono cento anni che Woody Guthrie è nato ma la sua musica non ne risente, i quattro hanno fatto vivere lo spirito e le ragioni della sua musica offrendo una versione musicale ricca, suggestiva, colorata anche quando era la polvere la protagonista delle storie, supportati dalle immagini che scorrevano alle loro spalle, dalle eloquenti letture di  Michele Buzzi che con dei flash approfonditi ha commentato l'opera di Guthrie e dalla recitazione dei testi delle canzoni da parte del Gruppo Teatrale Leoncavallo.
Una serata assolutamente fuori del comune, uno spettacolo che, si spera, possa avere delle repliche.

 

mercoledì 12 settembre 2012

Chris Robinson Brotherhood



Prima o poi sarebbero  arrivati i dischi giusti per Chris Robinson dopo  i due tentativi di New Earth Mud e This Magnificent Distance. Ha dovuto fare il rituale della grande luna per fare centro ma d'altra parte Chris con la psichedelia, il cosmo, le erbe e i viaggi lisergici ci è sempre andato a nozze. Big Moon Ritual  pubblicato nel giugno scorso e The Magic Door  reso disponibile a neanche due mesi dal precedente si presentano con copertine  che fanno tanto album degli Yes ma le sinfonie e i virtuosismi di tastiere, che sono quelle di Adam McDougall un altro Black Crowes, qui centrano poco perché sono piuttosto i Grateful Dead di Jerry Garcia i santoni di questo rituale. Big Moon Ritual è un disco psichedelico nel più classico dei modi, dalla copertina ai brani lunghi, tutti di durata al di sopra dei sette minuti, dal suono svolazzante e chitarristico, del tutto rilassato comunque, alle atmosfere cosmiche, sognanti, visionarie. Chris Robinson dopo avere suonato un centinaio di concerti tra la West Coast e New York ha realizzato il disco che ha sempre sognato di fare, un disco che focalizza il lato psichedelico dei Black Crowes con ballate lunghe, sinuose,  che si evolvono attorno ad una frase-tema ampliandola e dilatandola secondo una progressione strumentale da jam band. Non c'è molta attenzione al  formato canzone in Big Moon Ritual,  qui il bruciante rock/soul dei Corvi Neri è messo in armadio a vantaggio di un work in progress che vede le chitarre di Neal Casal involarsi in lande extraterrestri seguite dalle tastiere di McDougall e dalla brillante sezione ritmica di Mark Dutton al basso e George Sluppick alla batteria.  E' una formula che si ripete dalla prima all'ultima traccia, Robinson canta aiutandosi con la sua chitarra acustica, ad un certo punto passa la palla a Casal e McDougall, questi sviluppano in piena libertà il tema base girovagando per il cosmo, jammando e improvvisando, attorcigliandosi e defluendo nel tema principale per lasciare la parola ancora a Robinson che rientra ignorando bridge  e refrain, come stesse conducendo un monologo alla luna, poi di nuovo gli strumenti riprendono il viaggio astrale ed il brano si allunga fino a sciogliersi nell'etere. Nessuna irruenza, nessuna frizione, nessun selvaggio furore rock come coi Black Crowes, questa è musica per la mente più che per il corpo, suoni dilatati dell'universo Dead.  Star Or Stone e, se non fosse per l'inciso di moog, anche Reflection On A Broken Mirror  sembrano degli estratti di Wake Of The Flood  e poi ballate pastorali, un pò di Rolling Stones (Rosalee), fantasie psichedeliche morbidamente trattate jazz, passaggi che fanno pensare agli episodi più onirici di Amorica, qualche scampolo di country psichico lasciato indietro da Before The Frost Until The Freeze, questo  è il new cosmic California sound.
The Magic Door è sulla stessa falsariga del primo, copertina in stile orientaleggiante, stessa band, stesso produttore, Thom Monahan (Vetiver, Pepercuts, Devedndra Banhart) e probabilmente stesse session di registrazione al Sunset Sound di Los Angeles: il risultato è un altro fulgido disco di new cosmic California sound, un suono che evoca gli illustri passati del Fillmore West e del Topanga Canyon, oggi ancora in grado di mandare in visibilio migliaia di estimatori a cominciare dai lettori di Relix e dei fans dei Grateful Dead. Ma non solo, perché The Magic Door è la porta magica su una concezione del rock n'roll che prevede libertà espressiva a 360 gradi e capacità di espandere la fruizione sensoriale secondo uno stretto rapporto corpo-mente.
Tutte le tracce superano abbondantemente i cinque minuti, con una escursione record nei quasi quattordici minuti di Vibration & Light Suite, una cavalcata lisergica che tra momenti estatici e pindariche evoluzioni strumentali, in primis la chitarra di Neal Casal mai così vaporosa, riflette la nuova avventura  cosmica e mistica di Chris Robinson. A dirla tutta The Magic Door è anche meglio di Big Moon Ritual perché qualche forzatura progressive là presente qui si è definitivamente sciolta in un attitudine jam che rivela disinvoltura, affiatamento, rilassatezza.,  La conferma viene proprio dal brano più lungo, Vibration & Light Suite che sgorga liquido e senza grumi con una melodia ariosa che irradia benessere e vi trasporta nei paesaggi più luminosi della West-Coast music evocando Big Sur, le onde del Pacifico, il surf, i Quicksilver, il viaggio, un'era felice e spensierata di comuni illusioni. Non è un esercizio passatista e di revival perché Robinson e i Brotherhood non suonano con la carta carbone, inventano del nuovo, sono creativi e moderni e sanno come cambiare scenario per non ripetersi e tediare, a metà della lunga suite difatti induriscono i suoni secondo una mai sopita  attitudine rocknrollistica e arricchiscono il tutto con un atteggiamento jazzistico che regala  libertà di improvvisazione. Vibration &Light Suite è la dimostrazione di quanto possano essere visionari Chris Robinson Brotherhood ma non è la sola perla di The Magic Door.  Il loro essere eclettici  riesplode negli otto minuti e mezzo di Sorrows of Blue Eyed Liar  una ballata lenta che cresce attorno al cantato dolente di Robinson e poi si invola nel cosmo con le magnifiche tastiere di Mac Dougall a disegnare paesaggi astrali e la chitarra di Casal che fluttua nel vuoto.
Che Chris Robinson continui ad essere il miglior rocker della sua generazione lo conferma la ruvida ripresa del classico di Hank Ballard Let's Go Let's Go Let's Go e una Little Lizzie Mae sospesa tra echi di Stones virati country, refoli di jazz e scoppiettanti botti sudisti, perché qui Neal Casal si dimentica dell' Lsd e si procura una bottiglia di buon bourbon. Della stessa sponda è anche Someday Past The Sunset  un rock sporco da marciapiedi di Los Angeles, un solitario peregrinare nel buco nero della città con la bestia dentro ed una gran voglia di dimenticare tutto. Sa di alcol, di blues, di Black Crowes, di peccato e di slide, quella che Casal mette in strada per  trascinare i Brotherhood su per il sudicio Sunset. Splendida.
Sono invece delle ballate Appaloosa , nientemeno che il brano che compariva in Before The Frost Until The Freeze  qui leggermente riarrangiata e Wheel Don't Roll che col suo sapore agreste e pastorale, segnata comunque da un tocco di chitarra alla Jerry Garcia, ricorda gli episodi più rootsy di quell'album dei Black  Crowes.
Due dischi eccellenti che se fossero stati assemblati assieme sarebbero stati l'assoluto capolavoro rock di questo 2012.
MAURO   ZAMBELLINI        SETTEMBRE 2012



venerdì 17 agosto 2012

Small Faces: "negri" di Londra



Estate del 1966 : le radio pirata riempiono locali, negozi e case con Shapes of Things degli Yardbirds, Wild Things dei Troggs, River Deep Mountain High di Ike & Tina Turner, Eleonor Rigby dei Beatles, Summer in the City dei Lovin'Spoonful, I Feel Free dei Cream, Reach Out (I'll Be There) dei Four Tops,  l'Inghilterra diventa campione del mondo di calcio battendo la Germania a Wembley, Carnaby Street e King's Road pullulano di colori, boutiques, follie, giovani vocianti ed euforici, nei club si suona e si sballa con la nuova musica, Michelangelo Antonioni ritrae l'edonismo della città nel film Blow-Up. Londra è il centro del mondo, la capitale culturale e mondana del pianeta, la swingin' London. Quattro ragazzi dell'East-End sono troppo impegnati a suonare, fare shopping e stonarsi per accorgersi di  cosa succede intorno. Vivono in fretta, lavorano duro, sballano senza ritegno fumando erba e impasticcandosi con le anfetamine, poi arriverà anche l' LSD grazie al manager dei Beatles Brian Epstein, in poco tempo diventano i beniamini dei giovani londinesi.
Due di loro se ne sono andati per sempre, il cantante e chitarrista Steve Marriott bruciato nel suo cottage con le sue chitarre nel 1991, il bassista Ronnie Lane deceduto per sclerosi multipla nel 1997, gli altri due, il batterista Kenney Jones ed il tastierista Ian McLagan sono ancora attivi nella musica e hanno curato la ristampa in edizione deluxe dei loro primi quattro album rendendo giustizia agli Small Faces, perfetto esempio di gruppo mod capace di trasformarsi repentinamente e veicolare in un  brillante pop venato di rock e soul, inventivo e febbricitante, le aspettative di una generazione che tentava di rompere col passato e nello stesso tempo si immedesimava nel loro abbigliamento e nei loro atteggiamenti anticonformisti. Tra il 1965 e il 1968 gli Small Faces piazzarono 11 singoli nella Top 30 ma si rifiutarono di sedersi sugli allori cambiando stile da un album all'altro secondo i propri umori, salendo velocemente la china del successo e poi precipitando in un improvviso finale che lasciò monco il gruppo del suo leader e del suo eccezionale front-man Steve Marriott. Sarebbero nati i Faces e gli Humble Pie ma questa è un'altra storia.

Atteggiamento ribelle, accento cockney, buoni bevitori, origini piccolo-borghesi ed uno smisurato amore verso il soul ed il R&B americano, gli Small Faces portarono Memphis nell' East-End e con All or Nothing firmarono l'unico inno della Swingin' London in grado di competere con My Generation. Queste ristampe documentano la loro dead end street history spesso contrapposta alla più spettacolare avventura mod degli Who. Gli Who provenivano dalla zona di Shepherd Bush nel West-End, erano belligeranti, mascolini, ruvidi, usciti da un quartiere middle-class che i fans degli Small Faces accusavano essere "fighetto",  i Kinks abitavano nella parte nord di Londra,  erano colti, eleganti, dandy, androgini nelle pose, gli Small Faces personificavano  la riposta proletaria pur essendo di origini  piccolo-borghesi, avevano radici nella zona dimessa dell'East-End, erano ruspanti, vivaci, effervescenti, umorali. Vestivano alla moda, camicie preppy, pantaloni a tubo, giacche strette, foulard damascati, pool colorati, si tagliavano i capelli come dettava il momento, spendevano un sacco di soldi in scarpe, frequentavano le boutique di Carnaby Street ma  glielo si leggeva in faccia che erano quelli che venivano dalla periferia a  fare baldoria in centro città. Forse per questo, per questa loro naturalezza ed innocenza fecero breccia nei cuori dei giovani inglesi che li elessero portavoce di una inquietudine da sublimare a suon di R&B e shake. Proprio con Shake di Sam Cooke si apre il loro primo album, Small Faces del 1966 ristampato in due CD con l'originale album ed una messe di alternate version, single B sides, alternate mix, il solito pingue bottino per rendere appetibile una nuova e forse definitiva ristampa, anche se c'è chi spera in un Box antologico sull'esempio di quello magnifico dei Faces.
Grande era l'amore che i quattro nutrivano verso il soul e il R&B, verso Sam Cooke a Ray Charles in primis ma pure verso Otis Redding, la Tamla-Motown, Marvin Gaye, Booker T & Mg's, Don Covay, James Brown e le black-singers americane. Due erano gli elementi chiave che distinguevano gli Small Faces dai loro rivali: la capacità di riuscire ad improvvisare dei groove attorno ad un tema base standard e Steve Marriott, un musicista ed un cantante la cui energia era difficile da imitare e replicare e la cui voce rimane una delle più belle del British blues-rock. Ronnie Lane e Kenney Jones suonavano negli Outcasts e conobbero Steve Marriott in un negozio di strumenti musicali all'inizio del 1965. Due giorni dopo reclutarono il tastierista Jimmy Winston, erano nati gli Small Faces, li univa l'amore per Chuck Berry, Buddy Holly, Elvis, il soul e il R&B ma fu il successo dei Moody Blues della cover di Bessie Banks Go Now  a incoraggiarli a suonare roba del genere. La loro prima incisione fu E Too D, un brano piuttosto elementare ma quando ascoltarono  Anyway Anyhow Anywhere degli Who capirono che l'aggressività era la condizione necessaria per farsi accettare dalla nuova gioventù ribelle e allora venne fuori l'esplosivo Come On Children che cavalcava potente l'energia espressa da Marriott. Presero coraggio e si lanciarono in cover di soul e R&B ritagliandosi uno stile nervoso, urgente e pungente, ben espresso nell'album d'esordio Small Faces da brani come You Need Loving ammodernamento di You Need Love di Muddy Waters che i Led Zeppelin avrebbero poi trasformato in Whola Lotta Love avendo in testa gli Small Faces. Non era il solo brano a fare scalpore, c'era You Better Believe It dove si pappano in un colpo solo lo Spencer Davis Group, c'era il loro primo singolo What'cha Gonna Do About It qui replicato in una alternate version con inizio feedback alla Jimi Hendrix, c'era What's A Matter Baby di Clyde Otis e la strepitosa Sha La La La Lee di Mont Shuman, una delle vette assolute del beat. Non mancano brani di loro scrittura visto che l'album rispetta l'abitudine del periodo ovvero un contenitore di singoli e B-sides più una manciata di cover. Nelle bonus tracks c'è la gemma dimenticata di I've Got Mine prologo di quello che avverrà con lo psichedelico Ogden's Nut Gone Flake, c'è l'arrendevole It's Too Late con l'arsa voce e la graffiante chitarra di Marriott in primo piano e un coro di auh auh nelle retrovie, c'è lo Stax sound brittizzato di Sorry She's Mine, il modo di suonare la chitarra di Syd Barrett in E Too D e la melodia pop di One Night Stand, c'è la sofferta e bluesy Don't Stop What You're Doing e la garagista Patterns. C'è quella Come On Children che spiega in che modo gli Small Faces filtrassero il R&B americano con la nervosa irruenza di monelli da strada,  quell'attitudine cockney che ribaltava  un sincero tributo in qualcosa di originale, un groove standard trasformato dall'attacco punk degli spasmi e del feedback della chitarra di Marriott. Valeva anche il notevole lavoro ritmico di Kenney Jones, grande batterista e del bassista Ronnie Lane che con la sua voce melodica e armoniosa faceva da contraltare alle asprezze negroidi di Marriott. Indispensabili erano le punteggiature di tastiere di Jimmy Winston ma ancora di più quelle di Ian McLagan, fanatico di Booker T & Mg's, che sostituì quasi subito Winston e fu responsabile dello sbarco del Memphis sound a Londra.. Small Faces raggiunse il terzo posto e stette per sei mesi nelle classifiche di vendite del 1966. Crudo, sanguigno, sporco ed effervescente è un album ancora fresco, pieno di ritmo e di beat, di focoso soul e intrigante pop elargito con l'urgenza di chi è giovane, sfrontato e mod. Due CD e un party che non si dimentica tanto facilmente.
Nel maggio del 66 gli Small Faces si erano spostati a vivere al 22 di Westmoreland Terrace a Pimlico, zona meridionale di Londra poco distante da Brixton. L'avevano trasformata in una casa-ufficio dove invitavano discografici, amici, fotografi, musicisti come Paul McCartney e Mick Jagger, un luogo in cui rintanarsi e lavorare insieme. Pedina fondamentale per il loro successo fu il manager Don Arden, colui che aveva curato gli interessi di Gene Vincent in Inghilterra e dei Nashville Teens. Li mise sotto contratto nel 1965 per la Contemporary Records, credeva in loro, era protettivo, non aveva peli sullo stomaco, era un manager d'assalto e distribuiva mazzette ai dj in modo che i primi 45 giri degli Small Faces  girassero nelle radio pirata. Fu lui a portarli dall'East End al Westmoreland Terrace, fu lui a dare carta bianca ai quattro affinchè si costruissero una immagine con gli abiti di Carnaby Street. Spesero  più di quanto guadagnassero, alla fine del 1966  si ritrovarono in bancarotta, senza un quattrino e con la netta sensazione che i proventi delle royalties se li fosse spesi Arden  grazie al suo stile di vita  hip.  Arden faceva la bella vita mettendo sotto torchio i quattro musicisti che lavoravano senza sosta passando da una session di registrazione ad un set fotografico, da una intervista ad uno show vivendo talmente di corsa da non accorgersi del turbinio creativo della  Swingin' London. In più Arden buttò sul mercato il singolo My Mind's Eye ancora prima che fosse rifinito. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. All'inizio del 1967 il gruppo licenziò Don Arden e si accasò con la neonata Immediate Records di Andrew "Loog" Oldham, etichetta intraprendente nata sull'esempio di analoghe indipendenti americane come la Chess e la Motown. Ma due settimane prima che la Immediate pubblicasse il nuovo disco, Arden con la Decca mise in circolazione From The Beginning un album che accanto a cose già edite come Sha La La La Lee e What'cha Gonna Do About It raccoglieva materiale del primo periodo e soprattutto i singoli di successo del momento, la strepitosa All Or Nothing prima nelle classifiche UK, Hey Girl decima e My Mind's Eye anticipatrice con Yesterday, Today and Tomorrow dei risvolti beatlesiani e pop psichedelici del gruppo. Naturalmente ancora pulsava l'abrasivo soul di Marriott con una graffiante versione del classico di Marvin Gaye, Baby Don't You Do It, con Take This Hurt Off me di Don Covay, con You've Really Got A Hold On Me di Salomon Burke e con una bizzarra interpretazione di Runaway di Del Shannon ma agli occhi degli Small Faces  tutto ciò sembrò una ripicca di Arden che voleva bruciare sul tempo l'uscita del loro secondo album.  Il long playing originale  mono rimpolpato di bonus tracks, tra cui il singolo I Can't Make It/Just Passing ed un secondo CD con la versione stereo oltre a un pò di alternate mix e differente version, cinque delle quali completamente inedite, costituiscono il materiale dell'edizione Deluxe di From The Beginning.
L'apertura verso le droghe lisergiche, atteggiamento condiviso da Beatles e Stones e l'emergere di un sound psichedelico nonchè la spregiudicatezza di Andrew Loog Oldham portano gli Small Faces ad un cambio di stile. Lo si avverte ancora prima che il nuovo album esca, con il singolo del giugno 1967 Here Comes The Nice la più sfacciata ode ad uno spacciatore di droga che sia mai entrata in classifica. Quattordici sono le tracce che compongono la scaletta del terzo album, intitolato come il primo per la Decca Small Faces  e adesso riproposto in due CD, mono e stereo con tanto di bonus tracks (tra cui una inedita If YouThink You're Groovy) mono e stereo anche queste. Brillano tra queste Itchycoo Park singolo rivoluzionario, un suggestivo pop psichedelico inciso con l'uso dello phase-shifting, un particolare accorgimento applicato alla batteria che permetteva una sorta di eco-riverbero (poi usato da molti gruppi) e contribuiva ad aumentare la misteriosa atmosfera del brano, e l'altro singolo Tin Soldier un acido mix di rock e soul segnato dall' incredibile lavoro di Ian McLagan con tre tastiere (Steinway, Wurlitzer e Hammond), dal drumming potente di Jones, dalla voce sporca di Marriott e dal backing di P.P Arnold. Le chitarre graffiano e il sound creato da Glyn Johns, il miglior produttore inglese dell'epoca che, come nei dischi precedenti fungeva da ingegnere del suono, è perfetto per focalizzare il personale rock and soul della band.
L'album è diverso da quelli che lo hanno preceduto, ci sono fiati e ottoni in abbondanza, clavicembali e arrangiamenti orchestrali che testimoniano di uno spettro sonoro più ampio, tentativo di trascendere dalle limitazioni del pop. Corre l'anno 1967 e il pop è attraversato dalla rivoluzione psichedelica, escono, solo per rimanere in Inghilterra, Sgt.Pepper's, The Piper at the Gates of Dawn dei Pink Floyd, Their Satanic Majesties Request dei Rolling Stones, Mr.Fantasy dei Traffic. Gli Small Faces non vogliono essere da meno e cercano di indirizzare le loro influenze R&B verso il nuovo rock incorporando elementi diversi nel loro sound. A contrario di molti loro colleghi gli Small Faces non si ergevano a paladini del cambiamento, non volevano rivoluzionare il mondo ma solo far casino e divertirsi, la loro psichedelia era tenue e lunare. Nonostante ciò a cominciare da Small Faces affiora una vena più riflessiva nei loro testi, l'urgenza di Steve Marriott trova bilanciamento nella scrittura sensitiva di Ronnie Lane. Il risultato è un disco dove c'è di tutto: le loro radici nere e il pop da classifica, i flash melodici e le chitarre arrabbiate, i non sense e la nostalgia, gli strumentali  e le B-sides, le armonie alla Beatles e le marcette alla Kinks, il flower power di (Tell Me)Have You Ever Seen e il misticismo di Show Me The Way e Green Circles, esempio quest'ultima di  vibrazioni californiane importate nell'East End londinese, il surrealismo di Up The Wooden Hills To Berdfordshire  e il rozzo accento cockney di Marriott, gli ottoni di All Our Yesterday e il ritmo latin jazz di  Eddie's Dreaming che sa molto di Austin Powers. Troppa roba per essere un disco veramente riuscito, potrebbe essere il Between The Buttons della loro discografia, molte idee, non tutte a fuoco. Il 1967 è comunque un anno d'oro per la band, tre hits singles, due  classici sulla droga Here Comes The Nice e Itchycoo Park ed il rude Tin Soldier condensano in tre minuti tutto ciò che faceva grande gli Small Faces: l'emozione, il soul, l'equilibrio, la tensione e l'abbandono. Tre hits che danno lustro alla riedizione deluxe di Small Faces .
Già all'epoca di Tin Soldier, pubblicato nel dicembre del 1967, il gruppo si era messo a lavorare al nuovo disco rintanandosi con mogli e fidanzate su un barcone sul Tamigi, a Henley, in cerca dell'ispirazione giusta che venne quando una notte, accampati in un camping, furono "abbagliati" da una splendente mezza luna nel cielo. La partnership tra Steve Marriott e Ronnie Lane nello scrivere canzoni era giunta ad un punto ottimale tanto da far fatica a comprendere lo split out dell'anno seguente, le cose stavano comunque andando molto in fretta per chiunque se si pensa che in pochi mesi la guerra del Vietnam sarebbe arrivata al culmine, ci sarebbe stato il Maggio parigino e la Primavera di Praga e in aprile a Memphis Martin Luther King sarebbe stato assassinato. Il rock e il pop non furono esenti da tali scombussolamenti e dai venti di cambiamento,  il termine concept album prese piede nella produzione discografica, i Moody Blues con Days of Future Passed inaugurarono le infauste collaborazioni tra pop e musica sinfonica, il progressive era dietro l'angolo.
La Immediate di Andrew "Loog" Oldham non perse tempo, era una etichetta agile, dinamica, rivolta alle novità e sfruttò la presenza in scuderia dei quattro Small Faces come house-band per la registrazione di due singoli, If You Think You're Groovy di P.P Arnold e Would You Believe di Billy Nicholls e diede in mano due loro brani (My Way Of Giving e (Tell Me)Have YouEver Seen Me) a Chris Farlowe e The Apostolic Intervention per altri due singoli. L'anticipazione del nuovo album è però l'uscita del singolo Lazy Sunday. Cantata da Marriott in un comico accento cockney, la canzone non è molto dissimile da Autumn Almanac dei Kinks, con gli identici riferimenti alla noiosa vita domestica, al conformismo della società britannica, al paesaggio della provincia inglese evocata col canto degli uccelli e le campane della chiesa. Un bella caricatura della old england, non priva di humour ed ironia. In maggio viene pubblicato Ogdens' Nut Gone Flake, l'album più ambizioso nella discografia degli Small Faces oscurato dalla trovata della sua copertina circolare apribile in otto parti, ad imitazione di una scatola di tabacco dell'era Vittoriana dove venne cambiata la parola brown con gone. Negli intenti del gruppo doveva coniugare l'ascolto del disco con il fumo di una sigaretta di erba. Un disco innovativo certamente influenzato da Sgt.Pepper's e Majesties Request  per le sostanziali aperture sonore con una profusione di trovate strumentali, arrangiamenti ambient, armonie complesse e schegge psichedeliche. Già nell'iniziale canzone titolo ci si trova di fronte a qualcosa di completamente diverso, uno strumentale più appropriato alla soundtrack di uno spy movie che ad un disco degli Small Faces, uno scenario sonoro anticipatore di quel prog-rock esplorato in seguito dai Caravan. La cosa è maggiormente messa in evidenza dalle tracce Happiness Stan e The Fly contenute nel terzo CD della Deluxe Edition dove tra archi, clavicembali, violini e pianoforte sembra di stare in una suite di classica e nella jam strumentale Khamikhazi. La ricerca della novità non cancella però l'essenza degli Small Faces come dimostrano Afterglow ancora saldamente in mano a  Marriott e le out-takes Every Little Bit Hurts e Bun In The Oven una specie di personale Foxy Lady.  Long Agos and Worlds Apart è invece proiettata verso il surreale mood di I Am The Walrus dei Beatles, Rene inizia con una marcetta e finisce in jam e Song of A Baker scritta da Lane  sancisce il matrimonio tra un duro psycho-rock ed un testo contemplativo. Ma è la seconda facciata a disegnare i nuovi orizzonti, gli Small Faces combinano l'aspetto narrativo con la musica pop. La storia del giovane Happiness Stan è divisa in sei momenti ognuno dei quali introdotto dalle parole del maestro di cerimonia  Stanley Unwin, un comico della BBC famoso per le sue bizzarrie linguistiche. La storia si basa sull' "allucinazione" avuta dagli Small Faces nel loro rilassante soggiorno sul Tamigi: una notte Stan guardando il cielo ha visto che brilla solo metà della luna e allora parte per un viaggio alla ricerca della metà scomparsa. La storia si evolve come una favola tra poteri magici, giganti, voli pindarici ed un Mad John che spiega a Stan il significato della vita " la vita è proprio come una tazza di All Bran". Tutto questo ha come supporto sonoro una varietà di stili che abbracciano il folk psichedelico (Mad John), l'heavy-rock (Rollin' Over), il pop con una coda sing-along (Happy Days Toy Town), il rock underground (The Journey).  Il disco fu registrato in parte all'Olympic Studio a Barnes, nel sud-ovest di Londra e parte agli studi Pye e Trident nel West End con la fondamentale presenza di Glyn Johns che per tutto il lavoro incitò i quattro musicisti a sperimentare e ad andare oltre i loro clichè cosi da consegnare ai posteri un opera che ancora oggi è reputata tra le più originali di quella stagione del pop inglese, un disco che fornì ispirazione a più di una generazione di musicisti. Ogdens' Nut Gone Flake  oggi ristampato in tre CD, uno con la versione mono, uno con quella stereo e il terzo con le out-takes e le alternate version (c'è anche una Ogdens' Nut Gone Flake trattata phasing), salì in fretta le classifiche arrivando al primo posto il 29 giugno del 1968 e rimanendovi per sei settimane.
Un opera  innovativa, nel tempo in cui è stata concepita ha il merito di spostare in avanti il livello della creatività introducendo una serie di elementi tali da influenzare quello che verrà dopo. Le ristampe, al di là del materiale inedito che propongono, sono però fatte per essere ascoltate nel momento in cui sono pubblicate, assolvono ad un compito di memoria e testimonianza ma devono funzionare adesso perché se non fosse così basterebbe il vecchio originale vinile. Oltre al fatto di poter essere "utilizzate" e usufruite da coloro, in primis i giovani, che lo intercettano per la prima volta, senza diventare un monumento fine a sè stesso.   Detto questo, l'album più innovativo della discografia degli Small Faces ovvero Ogdens' Nut Gone Flake per le sue ambizioni di esperimento narrativo/musicale, sembra soffrire il tempo e l'età più del primo acerbo Small Faces, meno "costruito" e articolato forse ma ancora oggi fresco e fruibile. Succede spesso che album stilisticamente e culturalmente immagine di periodi storici  dalla simbologia  "forte" reggano meno di altri più trasversali e meno epocali. Come altri gruppi della fine sixties gli Small Faces trovarono difficile mantenere l' equilibrio costruito attraverso la loro storia e la loro musica, la strada era senza vie di uscita, non era possibile unificare nella loro musica e nelle loro relazioni tutte le diverse sfaccettature e possibilità di una industria discografica in rapida espansione. Non potevano essere ancora  contemporaneamente pop e rock , mainstream e underground, ruvidi e raffinati, leggeri e heavy, i contrasti sarebbero stati messi in evidenza nel conclusivo The Autumn Stone (un peccato tralasciarlo in questa operazione) ma poi i nodi sarebbero venuti al pettine e Steve Marriott avrebbe liberato il proprio boogie dando vita agli Humble Pie mentre gli altri tre avrebbero imbarcato Rod Stewart per continuare come Faces. Alle spalle rimane lo straordinario catalogo, riepilogato da queste quattro Deluxe Edition curate nella rimasterizzazione e nella compilazione, che testimoniano di un momento felice ed eccitante di libertà ed ambizione oltre ad offrire una ampia gamma di influenze a tanti successivi british rockers, dai Led Zeppelin ai Sex Pistols, dai Jam ai Britpoppers. Questo è quello che ci hanno lasciato gli Small Faces.

MAURO ZAMBELLINI