mercoledì 30 marzo 2011

James Maddock > Live At Rockwood Music Hall


Ah ma allora esistono ancora quegli animali da backstreets che cantano con l’ugola arsa dall’whiskey e dalla disperazione canzoni che sanno di vita vera, di fragilità umane, di ragazze carine che volano via, di chance buttate al vento, di albe indimenticabili non ai Caraibi ma nella Avenue C di New York che è come dire i quartieri spagnoli a Napoli o la Comasina a Milano. Si esistono e uno di questi lo sto ascoltando in questo momento, nella sera di un martedì qualsiasi mentre un aereo partito qualche km più in giù, da quella fonte di inquinamento acustico, atmosferico e politico che è Malpensa ma che qui bisogna parlarne bene perché dà lavoro a tanti e non ti fa perdere tempo quando devi partire per l’unico viaggio all’anno in cui prendi l’aereo, ha soffocato l’ultimo gorgheggio di un pianoforte fantastico, quello di Oli Rockberger, uno che ha il nome di una birra tedesca ma che suona come David Sancious in The Wild and The Innocent. Ragazzi non sto scherzando e se mi conoscete sapete che non sono avvezzo a sparate iperboliche o robe del genere, l’età mi dona la misura e faccio fatica ad emozionarmi come un tempo quindi quando qualcosa ronza energia, spontaneità, amore, freschezza e onestà me ne accorgo. Come questo James Maddock di cui so poco se non che è inglese ma vive da un casino di tempo a New York, era una promessa nel 2000 ma un matrimonio andato in fumo lo ha rigettato nel tunnel fino a quando con le forze ritrovate e la tenacia del santo in città ha pubblicato qualche anno fa Sunrise On Avenue C un titolo che avrebbe potuto sceglierlo solo Bruce Springsteen, Willie Nile, Willy DeVille e Ryan Adams ovvero tre generazioni di rock urbano della Grande Mela ai suoi massimi livelli.


Scapigliato e scarmigliato, con i jeans e la camicia jeans, James Maddock sembra un pò lo Springsteen di Greetings From Asbury Park, meno phisique du role e più sguardo bonario e i suoi amici, il pianista fantastico di cui ho già detto, il chitarrista John Shannon, il batterista Aaron Comess, il bassista Drew Mortali e il vocalist Lesile Mendelson (nessuna parentela col più famoso Mendelsson) quella gang di simpatici sciamannati che stazionavano sul retro copertina di The Wild and The Innocent. Ragazzi di strada con la faccia da proletari, sorridenti e felici per essere finiti su una copertina di dischi e avere in mano anche solo per poche ore la possibilità di cambiare il destino. Ed è quello che succede dentro le mura del Rockwood Music Hall dove loro sciorinano tutta la loro energia e fantasia suonando con impegno come fosse la Band di Rock of Ages una ballata dietro l’altra saltando da un ritmo che sa di R&B ad una suite che profuma del Van Morrison appena sbarcato in America, da una torrenziale Dumbed Down che sembra non finire più come una loro personale Rosalita ad una Like An Old Song che richiama il Rod Stewart di Gasoline Alley fino ad tenera Sunrise On Avenue C che immortala Alphabet City come l’ultimo luogo al mondo in cui i sognatori sono ancora una categoria nobile ed un bene per l’umanità.
Voce arrochita, urgenza poetica, immediatezza espressiva, romanticismo da bohemienne, James Maddock sembra uscito da una ristampa di un disco degli anni settanta che non ce ne eravamo accorti ma non è l’ultimo dei mohicani solo un innocente a cui non hanno detto che oltre Avenue A il mondo è cambiato e lui vive, canta e sogna come si faceva prima che scrivessero Born To Run. Certo ci sono analogie con Ray LaMontagne altro inguaribile romantico, specie per quella voce raspa e affumicata, per la scelta di ballate che sono un flusso di coscienza e anche Jesse Malin potrebbe essere suo amico se non fosse che Maddock è più dolcemente malinconico che rabbioso da East Village. Ma è la carica di speranza che con le sue canzoni infonde a chi lo ascolta il dato che lascia attoniti e felici, musica antica, un po’ arrugginita con ancora tanta ingenuità e naivetè strumentale ma senza trucchi, senza enfasi, senza zuccheri. Solo voce, chitarre, una band che suona per gli amici ed un piano che è un torrente di gioia.
Il rock n’roll come amore, spontaneità, vita e strade secondarie. Non è il futuro del rock n’ roll ma il passato che non muore. Questa sera state in casa e andate al Rockwood Music Hall. Sarete contenti come una Pasqua.

MAURO ZAMBELLINI MARZO 2011

5 commenti:

Paolo Vites ha detto...

molto gonzo questo post! quasi quasi lo ascolto pure

zambo ha detto...

grazie per il gonzo Paolo, mi è sempre stato simpatico Hunter Thompson

pato-patinho ha detto...

ciao Zambo!

ti sono piaciuto questa sera?
[nel senso di qualche ora fa,
tra le 20:46 e le 22:30]

Patinho

mouriggno ha detto...

sanguina il mio cuore
per la mancata “remuntada”
dei miei ex-ragazzi
nerazzurri…

coraggio, che tra un mese,
quando saranno ufficializzati i miei “zero tituli” di quest’anno,
torno io… insieme a balottelli…
e l’anno prossimo faremo nuovamente una strage!

bobrock ha detto...

molto bravo il pianista..veramente molto bravo....per il resto mi sembra un bruce dei poveri o anche un billy joel sempre dei poveri.
e allora ascolto gli originali.