martedì 25 gennaio 2011

Social Distortion > Hard Times and Nursery Rhymes


Vive di ottima salute il rock n’ roll ribelle e oltraggioso dei Social Distortion, uno dei gruppi più lucidamente antisociali del rock americano. Nati nel 1979 nei sobborghi di Los Angeles i Social Distortion divennero uno degli act più fracassoni ed infamanti della scena punk di Orange County alleandosi ai Germs, ai Black Flag, ai Dickies, ai Circle Jerks in quello che fu l’hardcore californiano di fine anni settanta. Il loro debutto discografico risale al 1983 (prima c’erano stati un po’ di singoli e qualche apparizione in compilation) con Mommy’s Lille Monster e tutto faceva sperava ad un riottoso futuro se non che il leader, cantante e chitarrista Mike Ness si imbucò in un tunnel di droga pesante che lo costrinse prima a sciogliere il gruppo e poi ad infilarsi in una faticosa riabilitazione dall’eroina. Coronata da un ritorno in scena nel 1988 con Prison Bound, secondo album dei S.D e primo approccio verso quelle roots che nell’omonimo album seguente porterà il gruppo a farsi carico di una originale versione di Ring Of Fire di Johnny Cash.
Gradualmente i Social Distortion si spostano dall’hardcore ad un punk venato di country, di blues e di rockabilly, tanto è che Mike Ness qualche tempo dopo darà alle stampe uno splendido lavoro solista Cheating At Solitaire con una monumentale versione di Don’t Think Twice di Dylan.
I Social Distortion si creano un sound teso, nervoso, rocknrollistico, una sorta di urbani Jason and The Scorchers con massicce infiltrazioni di Stones prima maniera, confermata dalle riprese di Backstreet Girl e Under My Thumb.
Dal 1990 a oggi saranno quattro gli album pubblicati dai S.D, alcuni con titoli, White Light, White Heat, White Trash e Sex, Love and Rock n’Roll, che non fanno mistero della loro vocazione alla trasgressione. Ma oltre a ciò e questa è la novità, nelle liriche di Mike Ness spunterà una adesione verso banditi, sbandati e gente tagliata fuori dal sogno americano con riferimenti espliciti verso il gangsterismo rurale della grande depressione e lo scenario proletario della southern California.
Una dimostrazione di questo approccio arriva da Hard Times and Nursery Rhymes dove Ness si libera del ribellismo solo estetico per approdare ad un duro punk-a-billy dalle sfumature sociali dove le chitarre veementi e urlate (Ness e Jonny Wickershaw) ed una sezione ritmica killer (il basso di Brent Harding e la batteria di David Hidalgo Jr.) servono come viatico per un rock n’roll vivo, barricadiero e senza compromessi.
Introdotto da uno strumentale (Road Zombie) in chiave tarantiniana e garage, Hard Times and Nursery Rhymes brucia energia ed elettricità come una Harley a pieno regime, è potente, viscerale, diretto, insolente come una canzone degli Stones, arrabbiato come un folk di protesta, disperato come un country di Hank Williams, veloce come un cow-punk degli Scorchers.
Dal repertorio di Hank Williams viene estratta Alone and Forsaken ed è l’unica cover del disco perché il resto è tutta farina del sacco di Ness, dal turbinio di gangsters di Machine Gun Blues ai ricordi sui bei tempi andati di Still Alive, dai miraggi del deserto di Bakersfield ai sogni di biker di Far Side Of Nowhere fino al gospel all’anfetamina di Can’t Take It With You.
Sullo sfondo della loro maledetta southern California (California hustel and flow) i Social Distortion suonano come dei Clash del nuovo millennio, sono sporchi, selvaggi, pericolosi e tatuati di blues, assolutamente necessari.


MAURO ZAMBELLINI GENNAIO 2011

giovedì 13 gennaio 2011

Steve Wynn and Miracle 3 > Northern Aggression


Il tempo ha dimostrato la validità di Steve Wynn come autore e performer, un nome sicuro per quanti bazzicano il rock americano classico e indie, uno che ha saputo attraversare almeno tre decadi di musica senza perdere di smalto, lucidità, freschezza e creatività. Lo scorso anno è stato ripubblicato Medicine Show dei Dream Syndicate, la prima band di Wynn, un album che rimane uno dei capolavori di quel rock underground che negli anni ottanta riuscì a sfuggire a superproduzioni, tastiere industriali e batterie trattate ad anabolizzanti. Anche dopo l’esperienza con i Dream Syndicate, Steve Wynn ha realizzato ottimi dischi, sia come solista sia con i Miracle 3, la sua ultima band dove milita sua moglie Linda Pitmon alla batteria e dove il basso è affidato a Jason Victor. L’ultimo disco con i Miracle 3 si intitola Northern Aggression ed è un piacevole ritorno alle vette della sua produzione post-Syndicate, ad album come Here Comes A Miracle e Static Transmission, quest’ultimo con gli stessi Miracle 3.
Il titolo dell’album si riferisce alla mai sopita rivalità tra sudisti e nordisti negli Stati Uniti, come afferma lo stesso Wynn: "quando arrivammo a Richmond in Virginia per registrare questo disco telefonai al mio amico Stephen McCarty e nel mezzo della conversione lui mi disse di lasciare la nostra aggressività nordista fuori dalla porta. Aveva parafrasato la frase con cui la gente sotto la Mason-Dixon line definiva la guerra civile, la guerra dell’aggressione nordista. Ci risi sopra ma la frase la trovai simpatica, ironica e appropriata tanto che diventò la frase preferita di tutta la session e quindi il titolo del disco”.
Asciutto e aggressivo ma anche melodico e psichedelico Northern Aggression riprende gli antichi amori di Wynn, in primis i Velvet Underground e vi aggiunge una dose di americana attraverso alcune ballate venate di un solitario umore sudista ( tra tutte la splendida The Death Of Donny B, una delle ballate più toccanti dello scorso 2010) consegnando una riuscita collezione di canzoni ed uno spirito rock a denominazione di origine controllata..
Inizia alla grande ed in maniera decisa Northern Aggression, Resolution è una delle tracce più riuscite, si ricollega un po’ ad Amphetamine,un titolo che è un must dei suoi live shows, è plumbea nei colori e gelida nelle atmosfere, Suicide e Velvet Undreground che suonano in un film d’animazione dark mentre più classicamente rock è We Don’t Talk About It che smorza il delirio avanguardistico del primo brano con una filtrata dose di psichedelia. No One Ever Drowns richiama le foschie indie del suono dei Miracle 3, tanto da far venire in mente i Cure di A Forest, un ambientazione molto nordica che contrasta col generale decor del disco. Eravamo in Virginia, nel sud, aggiunge Wynn “ in quelle session lasciammo alla porta i nostri modi nervosi, il parlare in fretta, quel sentirsi perennemente su di giri da yankees per scivolare in un lento, rilassato e misterioso modo di fare sudista”. E difatti poco a poco il southern mood fa capolino, Consider The Source è una ballata lenta e ammaliante dall’aria ipnotica , The Death of Donny B. è un sussulto delicato nel silenzio della notte , The Other Side apre ad una sorta di lunatico country-rock e Cloud Splitter evoca i disadorni ambienti dei Richmond Fontaine, una band che ha eletto la desolazione a poesia.
Nel finale torna in cattedra lo psycho-rock, in On The Mend le chitarre tornano a fremere acide e visionarie e in Ribbons and Chains i Miracle 3 si divertono a collidere con vera rock n’roll band. Consigliato.

Steve Wynn and Friends saranno in tour in Italia l’11 febbraio a Lugagnano di Sona (Vr), il 12 al Bloom di Mezzago, il 13 al Big Mama di Roma e il 14 a Marostica.

MAURO ZAMBELLINI

venerdì 7 gennaio 2011

Mandolin' Brothers > Moon Road


Rimane sempre una colonia l’Italia per quanto riguarda il rock n’ roll anche se è una di quelle colonie che godono di uno statuto speciale con tanto di parziale indipendenza e completa autonomia. Negli anni sono cresciute centinaia di band che pur riferendosi in maniera inequivocabile al rock americano, copiando stili, imitando atteggiamenti e usando la stessa lingua, hanno sviluppato una propria autonomia ricreando lo stesso feeling con un inconfondibile spirito italico mettendoci innocenza, vivacità ed entusiasmo. Doti che hanno in parte sopperito ad una tecnica non sempre eccelsa e ad una comprensibile mancanza di malizia nel plasmare una lingua non naturale per noi latini. Al di là delle difficoltà ne è nata una italian wave che si è fatta apprezzare anche all’estero, soprattutto nella “madre patria” America. Gli esempi non mancano e abbondano, basta leggersi i nomi che riempiono il tributo For You alle canzoni del Boss per avere un’ idea del fenomeno, alcuni di questi nomi sono arrivati nei club e nelle radio americane e non è poco se si pensa che qui da noi le radio (al 99% una vera schifezza) non offrono un briciolo di promozione e i locali che fanno musica sono come il temolo.
E’ un piacere quindi trovare una band dell’Oltrepò Pavese, un tempo zona famosa solo per i vini con le bollicine e oggi teatro di una scena assolutamente frizzante nel campo del rock e del blues, invitata in quel tempio sacro del rock n’roll che è Memphis e ospite dell’International Blues Challenge. Significa che la passione, la dedizione, i sacrifici e la tenacia sono stati alfine premiati ed un sogno americano si è finalmente avverato.
Gli autori di questo miracolo si chiamano Mandolin’ Brothers anche se ad onor del vero di mandolino ce n’è uno solo (Marco Rovino) ed il sound è quello che vi aspettereste da un combo che naviga tra blues e country, con forti aperture verso il vecchio e classico rock n’ roll, quella cosa che tutti chiamano americana ed una serie di nomi che sono una specie di passepartout per la terra promessa ovvero Dylan, i Little Feat, Steve Earle e Van Morrison. E’ roots-rock di radici americane e non pavesi ma questo è il limite di appartenere ancora ad una colonia, sebbene a statuto speciale. Non sono di primo pelo i Mandolin’ Brothers perchè circolano da parecchio e hanno alle spalle una discreta discografia nella quale spiccano il maturo Still Got Dreams del 2008, disco che li ha catapultati all’onore delle cronache specializzate e il pimpante 30 Lives! con cui hanno festeggiato i 30 anni della loro militanza.
A Memphis hanno suonato al BB.King’s Blues Club di Beale Street e ad Austin hanno registrato questo nuovo mini CD intitolato Moon Road.
Sei brani registrati con la supervisione del produttore Merel Bregante e con la partecipazione di invitati quali il violinista Cody Brown, il bassista Lynn Daniel, il chitarrista Kenny Grimes, lo stesso Bregante e la brava Cindy Cashdollar, lap-steel guitar e dobro con Dylan, Dave Alvin e Ryan Adams.
Al CD hanno allegato un DVD che racconta il loro viaggio nel Mississippi , sulle highway 61 e 49, luoghi sacri della musica di cui loro sono figli. Il tutto viene raccolto in uno splendido digipack arricchito da un lavoro fotografico e grafico a dir poco superbo, testimonianza di un amore verso questo mondo di blues e rock n’roll vissuto fino nel più piccolo dei dettagli. Se la parte visuale è capace da sola di catapultarvi in quelle terre ed in quell’atmosfera, la musica non è da meno. Registrata in maniera tecnicamente ineccepibile con una resa sonora da prodotto altamente professionale, la musica di Moon Road è eloquente sintesi degli umori e delle passioni dei Mandolin’ Bros.anche se rispetto ai lavori precedenti qui c’è una prevalenza di suoni acustici e country. Si passa dalla frizzante vivacità di Hold Me, pezzo che con il suo intreccio chitarristico (Paolo Canevari, Marco Rovino, Cindy Cashdollar) non sfigurerebbe nel repertorio dei Flying Burrito Brothers alla più intimistica 49 Years dove il cantante Jimmy Ragazzon ed il violinista Cody Brown ricreano un pastorale paesaggio appalachiano, dalle suggestioni borderline di Moon Road impreziosita dalla fisarmonica di Riccardo Maccabruni all’arruffato Old Rock & Roll da juke joint, per poi concludere con gli intrecci mandolino/chitarra acustica e slide di Dr.Dreams, riuscito matrimonio tra folk e country-blues e con l’intenso e sincero antimilitarismo di Another Kind frutto della lucida scrittura di Jimmy Ragazzon, autore cresciuto a pane e Dylan.
Sei canzoni ed un DVD con il titolo di Moon Road, nuvole, strade, polvere ed un sacco di passione da parte di una delle formazioni più vispe della italian way to the american music.

Mauro Zambellini Gennaio 2011