lunedì 30 agosto 2010

25 Southern Songs (vol. 1)


Down South Jukin’ : Lynyrd Skynyrd
Call Me The Breeze : Lynyrd Skynyrd
Simple Man : Lynyrd Skynyrd
That Smell : Lynyrd Skynyrd
Midnight Rider : Gregg Allman

The Devil Went Down to Georgia : Charlie Daniels Band
Spooky : Atlanta Rhythm Section
Blue Sky : Allman Bros Band
Southbound : Allman Bros Band
Jessica : Allman Bros Band

Bougainvillea : Dickey Betts and Great Southern
Can You See : Marshall Tucker Band
This Ol’Cowboy : Marshall Tucker Band
Dixie Chicken : Little Feat / featuring Mandolin Brothers
Hot Nights In Georgia : Jason and The Scorchers

Hotel Illness : Black Crowes
Wiser Time : Black Crowes
All Over But The Cryin’ : Georgia Satellites
Drive South : John Hiatt

Angry Southern : Gentlemen Terrell
The Day John Henry Died : Drive By Truckers
Easy Money : Todd Snider
Shake Em On Down : North Mississippi Allstar
Sweet Virginia : Rolling Stones

martedì 17 agosto 2010

The Black Crowes > Croweology


I Black Crowes festeggiano il ventesimo anniversario del loro debutto, Shake Your MoneyMaker risale al 1990, con Croweology un doppio album nel quale il gruppo sudista rivede il proprio songbook in chiave acustica. Brani storici come Jealous Again, Remedy, Hotel Illness, Ballad In Urgency, Wiser Time, She Talks To Angels, Morning Song, Thorn In My Pride, Non-Fiction provenienti dagli album migliori della loro discografia ( Money Maker, The Southern Armony and Musical Comapnion, Amorica) ma ci sono anche tracce di Three Snakes And One Charm (Under A Mountain , Good Friday, Girl From A Pawnshop ) e Lions (Soul Singin)sono rivisti in una veste acustica che mette in rilievo l’anima roots ed il loro profondo legame con la tradizione della musica del sud.
Anima roots che sembra essere predominante nelle ultime prove del gruppo della Georgia visto quello che i Crowes hanno fatto con lo splendido Before The Frost… Until The Freeze e nel DVD Cabin Fever Winter Winter 2008 dove nello studio di Levon Helm in mezzo alle innevate montagne di Woodstock la band si è immersa in una atmosfera che a tanti ha ricordato quella della Band di Music From a Big Pink e dei Traffic della campagne del Berkshire. Ancora una volta il rock mischiato alle radici della musica americana, al blues, al country, al bluegrass, al folk con un approccio di basso profilo molto diverso da quello che aveva accompagnato i Black Crowes agli esordi, quando addirittura venivano messi in cartellone nelle adunate e nei festival metal.
Il tempo è stato dalla loro parte, i Black Crowes si sono rivelati una potente rock n’roll band e poi, dopo un periodo di silenzio, hanno avuto il coraggio di cambiare e con l’innesto del chitarrista Luther Dickinson al posto di Marc Ford hanno maturato un sound dalle forti implicazioni roots, un sound con tante sfumature, legato alle radici della musica americana senza per questo venir meno a quella verve rock che si sente nel modo in cui compongono le canzoni e le interpretano.
Per certi versi assomigliano ai migliori Stones di fine anni 60/inizio anni 70, a loro dire i punti di riferimenti di questa evoluzione sono stati Beggar’s Banquet ed il terzo album dei Led Zeppelin, quello delle connessioni con il folk, ma il batterista Steve Gorman cita anche Every Picture Tells a Story di Rod Stewart e personalmente ci trovo molto di The Band e di Delaney and Bonnie and Friends oltre agli Allman Brothers più pastorali, quelli per intenderci degli episodi acustici di Eat A Peach, come sembra testimoniare il meraviglioso arrangiamento della magnifica Wiser Time un brano di Amorica che mi ha sempre trasmesso un senso di pace, di rilassatezza, di bucolica contemplazione, di sognante road movie anni ’70.
Croweolgy è un bellissimo disco, un doppio album (come d’altra parte Before The Frost… Until The Freeze) nello stile dell’epoca d’oro del rock frutto di una registrazione sbrigativa effettuata in soli cinque giorni ai Sunset Studios di Los Angelus suonando in diretta come fossero dal vivo. L’idea di tale progetto era venuta ai Black Crowes dopo un doppio show acustico tenuto nel 2008 alla New York Town Hall. La riuscita degli show, il coinvolgimento del pubblico e la sfida con sé stessi aveva indotto il gruppo a concretizzare quell’idea così che oggi abbiamo a disposizione una performance eccelsa che dimostra la bravura dei singoli musicisti e la loro versatilità nel ridare nuova vita a vecchi brani, nel riarrangiarli e nell’offrire con strumenti acustici (splendide le chitarre e favoloso il pianoforte) un appeal davvero coinvolgente, sebbene privo della febbricitante urgenza elettrica di Robinson e soci. Un operazione che conferma la grandezza di questa band, secondo chi scrive il miglior gruppo rock in senso classico uscito dagli anni novanta, ritornato alla ribalta negli ultimi anni dopo un periodo di stallo e oggi in grado di far rivivere il grande rock degli anni settanta tra liberatorie esplosioni di cruda elettricità, sprazzi di psichedelia e intense ballate calde come un camino d’inverno. Croweology è il disco che ci vuole per affrontare l’autunno, quest’anno purtroppo in netto anticipo .

Mauro Zambellini Agosto 2010

venerdì 6 agosto 2010

Piece of My Heart: Willy DeVille 1950-2009


Il 6 agosto di un anno fa se ne andava definitivamente il più grande soulman esistito dopo la morte di Otis Redding. Una perdita colossale per quanti, come me, avevano amato la sua musica, il suo charme sinistro e gaglioffo ed il suo essere originale, scomodo, coraggioso, pericoloso, controcorrente, vero. Un anno senza Willy De Ville è come un anno senza campionato di calcio, manca qualcosa, anche a quelli che il calcio non lo seguono. Ci sono rimasti i suoi dischi e le sue registrazioni a consolarci, pur rattristati dal sapere che l’avventura è finita per sempre, documenti immortali di un artista che è stato tanto amato quanto ignorato. Nessuno nei dodici mesi trascorsi, tra i suoi colleghi e nel mondo musicale, ha speso parole per lui e per la sua musica, magari solo ricordandolo o dedicandogli qualche tributo (ne meriterebbe più di uno) come si fa attualmente per l’ultimo dei bovari degli Appalachi travolto da un trattore o per qualche misconosciuto “maudit” del rock alternativo morto per overdose. Si sono scritti fiumi di inchiostro su Michael Jackson ma su Willy niente, zero. Una vergogna, la dimostrazione di cosa sia diventato il mondo in cui viviamo. Uno schifo. Una eccezione c’è ed è una grande eccezione, Peter Wolf ex cantante della J.Geils Band, un signore, un nobile, un personaggio di altri tempi e di altri cuori, oltre che grande cantante e indomabile rocker, ha scritto una splendida e romantica ballata, The Night Comes Down (for Willy DeVille) sulla falsariga di quelle gemme che Willy cantava in Return To Magenta o Le Chat Bleu ovvero luci capaci di rischiarare un umida e buia notte newyorchese. Fa parte del menù di Midnight Souvenirs un disco che è un delitto non avere, uno dei migliori CD di questo 2010, un disco che è una stretta al cuore e rende giustizia sia alla bravura di Wolf che all’arte di Willy.
Questo che segue è un lungo articolo che scrissi dopo la morte del gitano, già pubblicato sul numero di ottobre 2009 del Buscadero. Mi è sembrato opportuno rimetterlo in circolazione ad un anno da quel funesto giorno, magari a qualcuno farà piacere.


Quando lo vidi da vicino la prima volta nel 1981, intervistato nella room 329 del Chelsea Hotel di New York oltre alla soggezione provai vera paura. Ci aveva aperto la porta della stanza Toots, una tipa a piedi scalzi con un trucco pesantissimo ed un turbante di capelli tipo Ronettes, labbra rossissime e denti d’oro su tutta l’arcata. Uno shock. Lui era seduto su una poltrona, magro, vestito di nero, con un ciuffo alto e sporgente, gli orecchini e qualche dente da 22 carati. Anche nell’intimità di una camera aveva un magnetismo ed un carisma straordinario, le sue movenze lente e raffinate intimidivano, la sua voce bassa, profonda, rotta solo da qualche rancida risata, mi ipnotizzava, il suo savoir faire aveva qualcosa di principesco. Si vedeva che era “fatto” ma era lo stesso magnifico e signorile, era una star nel vero senso del termine, aveva i modi di una diva del cinema, un personaggio da romanzo ottocentesco. Sembrava un moschettiere cresciuto in una improbabile corte di Salvador Dalì, non era ancora un gitano. Era pericoloso, lo si vedeva al volo. Ad un certo punto, dopo che Toots lo aveva irrorato di profumi, spruzzati da una boccetta presa da un comò, Willy si era alzato, aveva impugnato un bastone intarsiato col manico d’avorio, ne aveva sfilato una parte e ne aveva mostrato la sottile spada e con una mossa repentina aveva mimato “il tocco”. Questo è il Coup de Grace, aveva detto, con quella sua risata sarcastica, acida, inquietante, è l’esecuzione con cui la mafia mette a tacere i suoi delatori, voi che siete italiani dovreste saperlo bene.
Era il 27 agosto del 1981, una giornata di afa bestiale a New York, pioveva ma era la pioggia estiva dei condizionatori d’aria impazziti, la condensa di una città morsa dal caldo. Due mesi dopo, nell’ottobre dello stesso anno, quando l’estate (e New York) erano ormai un ricordo lontano, nei negozi di tutto il mondo usciva Coup De Grace uno degli album più rock di Willy DeVille allora ancora sotto il nome Mink DeVille, un album fortemente influenzato dal sound del Jersey Shore di Bruce Springsteen e Southside Johnny.
Nel corso degli anni ho visto, incontrato e parlato numerose volte con William Paul Borsey Jr. alias Willy De Ville ma quell’incontro mi è rimasto stampato nella memoria, come se fosse avvenuto ieri. Quando il 7 agosto di quest’ anno ho saputo della sua morte ho sentito una stretta al cuore, un senso di vuoto mi ha lasciato attonito. E’stato il primo artista che ho intervistato, era un artista che, non qualche difficoltà, gli si poteva arrivare vicino, non viveva circondato da una barriera di addetti ai lavori che ne impediva il contatto. A volte era sfuggente, infastidito, assorto nei suoi problemi ma, al di là dei suoi look pittoreschi e teatrali e dei suoi modi da diva, quando era di umore giusto parlava a briglia sciolta di qualsiasi cosa, dalla musica all’arte, dall’ architettura ai cavalli, dai vestiti alle città. L’ho seguito sempre e comunque, attraverso i suoi concerti, i suoi dischi, le sue interviste e conferenze stampe. E’stata una parte importante del mio cammino nel rock n’roll. Willy De Ville è stato un personaggio senza eguali oltre che un grande cantante, un grande performer ed un grande autore e attore. Per molti di noi, sebbene non fossimo musicisti, è stato una sorta di maestro, nessuno come lui ci ha insegnato a catturare le emozioni con la musica e a dare bellezza ad una sporca storia di strada o ad una tormentata vicenda d’amore. Lui ci ha portato nell’inferno della Lower East Side facendoci capire di quanta umanità fosse possibile il ghetto e ci ha catapultato nel cuore di New Orleans, immergendoci nei suoi misteri e nei suoi ritmi. Ci ha insegnato che per essere un cantante soul ci vuole l’anima e non il colore della pelle e che una voce, seppur aspra, ed una canzone in certi momenti possono essere la migliore consolazione contro la solitudine, la mancanza di denaro e il dolore. Ci ha insegnato che il rock n’roll è come la vita, puoi avere talento ma non è detto che avrai successo.
Di talento Willy ne aveva da vendere. Coup de Grace segnò il rientro a New York di DeVille ed un nuovo contratto discografico con la Atlantic voluto da Ahmet Ertegun, uno degli uomini più importanti di tutta la storia del r&b in America. Dopo due dischi nudi e crudi come Cabretta e Return To Magenta (1977/78) che avevano rimesso in gioco una serie di suggestioni come Brill Building sound, uptown soul, Phil Spector, Jack Nitzsche, spanish harlem, Drifters e Dion, Willy DeVille era entrato in contatto con uno dei più grandi autori di musica americana, Doc Pomus che ne era rimasto folgorato ed aveva visto in lui l’incarnazione del perfetto soul singer, un cane randagio con i modi del bullo che con uno slang mezzo portoricano riportava in auge i Drifters.
Confuso tra le orde di punk ed il rock al vetriolo del Cbgb, un club dove Mink DeVille per un paio di anni fu attrazione fissa assieme a Ramones, Patti Smith, Television e Talking Heads, Willy cambiò improvvisamente scenario e se andò a Parigi convinto di poter registrare nella ville lumiere il suo grande album, quello che lo avrebbe consacrato nell’olimpo del rock. Pensò in grande ma non tenne conto dell’ignoranza dei businessmen dell’industria discografica. Si affidò per gli arrangiamenti orchestrali a Jean Claude Petit, l’uomo che era stato dietro Edith Piaf, usò il sassofonista di Phil Spector Steve Douglas e la sezione ritmica di Elvis Presley ovvero il batterista Ron Tutt ed il bassista Jerry Scheff, oltre ai suoi buddies, il chitarrista Louis X. Erlanger, responsabile della infarinatura blues del Mink DeVille group ed il tastierista e fisarmonicista Kenny Margolis, un musicista che affiancherà Willy fino alla fine della sua carriera. Il risultato fu un disco che i francesi definirono superbe, intenso, passionale, ricco di swing e di sfaccettature cajun, con aperture liriche verso la chanson francese, in particolare Edith Piaf. Un album superlativo, uno dei suoi più belli, denso di un romanticismo che esala il fascino della Parigi delle caves, dei bistrot e anche dei blouson noirs, visto i riferimenti a Gene Vincent. Un omaggio a quella cultura europea che Willy, nato da madre indiana (pequot) ma con discendenze basche ed irlandesi, ha sempre avuto nel suo dna. La Capitol americana non seppe che farsene di un disco così, da Parigi si aspettavano che arrivasse un disco di new-wave alla moda, (“ma come? Questo non è punk, non è musica americana, mi dissero “i’m not american, i’m newyorker gli ho riposto e così è finito il mio contratto con la Capitol) gli europei invece andarono in giuggiole e lo incoronarono disco di culto per eccellenza. Venne pubblicato in Europa nel 1980, solo più tardi verrà pubblicato negli Stati Uniti.

Non era comunque la prima volta che Willy tradiva New York, la sua città adottiva, era nato difatti nel 1950 a Stamford, nel Connecticut “una città di fabbriche dove tutti lavorano e aspettano di morire”. A ventanni dopo qualche fallito tentativo di crearsi una band aveva pensato bene di trasformare una gang di teppisti di strada in rock n’roll band, il che spesso è la stessa cosa, chiamandola The Royal Pythons e con questi se ne era andato sulla west-coast a cercare fortuna perché in quei primi anni settanta non c’era niente di veramente interessante a New York se non vedere quegli scoppiati del flower power che adesso si iniettavano anfetamina e giravano come zombie nella Notte dei Morti Viventi. Nel 1974 è a San Francisco che DeVille fonda il primo nucleo di quello che sarebbe diventato Mink DeVille col bassista Ruben Siguenza, il batterista Tom “Manfred” Allen, il pianista Ritch Colbert ed il chitarrista Fast Floyd. Il primo nome affibbiato al gruppo è Billy DeSade & The Marquees ma con l’introduzione del chitarrista Louis X.Erlanger le cose cambiano ed il ritorno alla città madre è un atto dovuto. Mink DeVille diventa fisso al Cbgb (ci davano 150$ a sera da cui ci detraevano le spese per il bere, in pratica suonavamo gratis), sulla Bowery soffia il vento del punk ma Willy ama Muddy Waters, John Lee Hooker e John Hammond Jr. il cui disco del 1965 So Many Roads è quello che gli cambia la vita.
Gli anni del Cbgb (sulla raccolta della Atlantic Live At Cbgb c’è una ballata dall’inconfondibile lezzo rollingstoniano, Cadillac Moon che Willy non ha mai più cantato ma che, a parere di chi scrive, rimane uno dei suoi highlights sconosciuti) sono alle spalle da un pezzo quando ritrovo Willy DeVille per la seconda volta. E’ a Piazza Vetra il 19 luglio del 1982 durante la rassegna Milano Suono, un festival col sottotitolo di Inventario dei percorsi musicali nelle metropoli degli anni ottanta organizzato da Radio Città e dalla giunta socialista. La pomposità del sottotitolo presuppone che nella stessa serata siano in cartello le performance di Siouxsie and The Banshees, Echo & The Bunnymen e per ultimo, all’una di notte per uno show di soli 40 minuti visto le proteste degli abitanti della zona, Mink DeVille. Ci sarebbe dovuto essere anche Angelo Branduardi ma per fortuna la sua esibizione saltò. Lo show di Mink DeVille fu interrotto all’una e trenta dall’arrivo della polizia chiamata dalla gente del Ticinese. Willy scese dal palco incazzatissimo, non conosceva ancora l’ italian style ovvero l’abitudine ad usare il rock and roll per fini meramente elettorali. Già prima del concerto non era lo stesso rilassato DeVille del Chelsea Hotel. Avvicinatomi alla roulotte che fungeva da camerino e tentato vanamente di parlargli avevo trovato un uomo nervoso e ansioso che cercava qualcos’altro che non fosse parlare del suo lavoro. Voleva la droga, me lo fece capire apertamente. Forse non aveva tutti i torti, essere relegato a notte fonda in un parco sorbendosi le esibizioni di quei dark inglesi deve essergli sembrato insopportabile se non offensivo. Ma nonostante le condizioni al contorno Willy in divisa d’epoca ovvero giacca e pantaloni attillati neri, stivaletti alla Beatles, cravattino stretto e camicia viola emozionò quanti lo avevano aspettato con impazienza fino a quell’ora. Il suo primo show milanese fu introdotto dallo strumentale Harlem Nocturne e poi, dopo le rose rosse buttate al pubblico, con le maracas in mano Willy aveva sciorinato la danza sinuosa di Slow Drain per poi passare ai pezzi forti del suo set, a Savoir Faire, Cadillac Walk, She’s So Tough, Spanish Stroll, alla ballata Just Your Friends e a Love & Emotion l’ ultimo arrivato da Coup de Grace. Un sound secco, tagliente, rocknrollistico, il Mink DeVille di New York City. Poi, dopo una sferzante versione di Lipstick Traces ecco la polizia e tutti a casa con l’amaro in bocca.
La volta successiva che lo vedo è un concerto grandioso, vigoroso e potente, carico di passione e di tosto r&b urbano. Il suo miglior concerto italiano dell’era Mink DeVille. E’ il 6 giugno del 1984 e in circolazione c’è Where Angels Fear To Tread altro disco della scuderia di Ertegun che a contrario del precedente non gode della produzione dell’amico Jack Nitzsche, l’uomo che ha saputo in tempi diversi offrire a Willy sempre il sound giusto. E’ un disco ispirato ma non ha l’immediatezza di Coup De Grace nonostante includa quello che sarà il tormentone Demasiado Corazon, una ballabile salsa-rock che lo porterà anni più tardi, ahimè, negli studi Mediaset. Nuoce ad Angels quell’aria un po’ compiaciuta di chi si sente sul palcoscenico come una Billie Holiday al maschile ma finalmente DeVille può sfruttare il momento favorevole. L’Atlantic gli aveva dato la possibilità di ripulirsi un pò, di risolvere i problemi con la sua vecchia band e di ricostruirsi una carriera ed una immagine, in parte compromessa dalle sue pericolose abitudini, almeno negli Stati Uniti. Quelli tra il 1982 ed il 1985 sono anni positivi per Willy ed il suo nome esce dalla cerchia degli “specialisti”per fare il giro d’Europa dove i suoi dischi vendono abbastanza bene e la sua musica viene accomunata al nuovo emergente mainstream rock che monta dal New Jersey.
Quando arriva a Milano il Teatro Tenda è gremito, lo sparuto nucleo di appassionati che lo aveva atteso fino a notte fonda qualche anno prima a Piazza Vetra è diventato una folla. Lo strumentale Goodbye Pork Pie Hat di Charlie Mingus prende il posto di Harlem Nocturne e dopo l’overture arrivano sia le immancabili rose rosse per le “signore” delle prime fila che questo affusolato ganzo ricain con la sigaretta infilata tra le labbra a mò di gangster e la stretta giacchetta nera ormai lisa da rocker degli anni ’50. Lo show è sontuoso, la band conta sui servigi di Kenny Margolis, Rick Borgia e Louis Cortellezzi ovvero il cuore pulsante di Mink DeVille, il suono è una frustata di rock n’roll al serramanico con venature blues, soul e latin. Vanno in scena per la prima volta (in Italia) Each Words Beat Of My Heart, Lilly’s Daddy Cadillac e Demasiado Corazon che mette a ballare tutto il Tenda. Willy è padrone della città ma non dimentica gli intenditori del soul, accenna a Save The Last Dance for Me e a Spanish Harlem presi dal repertorio di Ben E.King, all’epoca uno dei suoi cantanti di riferimento.

Quando lo si rivede di nuovo parecchia acqua è passata sotto il ponte. Consumato il suo feeling con Doc Pomus con un album, Sportin’ Life, piuttosto scadente e sovraprodotto e tentata la carta della collaborazione illustre con Mark Knopfler sfociata nel contraddittorio Miracle, bello per chi scrive ma poco amato dall’autore e dal pubblico in generale, Willy DeVille nel 1988 aveva lasciato l’amata New York per trasferirsi a New Orleans e cercare in quella città quel gusto, quella senso della storia e quegli umori che anni prima aveva cercato a Parigi. Sembrava la città ritagliata a sua misura: il blues, il jazz, l’architettura coloniale, l’eredità francese, l’ influenza spagnola, la cucina creola, il Mardi Gras, le strade strette all’europea, il fascinoso intreccio di culture, etnie, magia, odori e colori. Willy si immerge a capofitto in un mondo che lo rigenera e gli offre una nuova chance artistica ed esistenziale. Avevo lo stesso feeling che si prova quando qualcuno torna a casa. Era molto strano… vivevo nel Quartiere Francese a due strade da Bourbon Street. Di notte quando andavo a letto sentivo il boogie che saliva dalla strada e alla mattina quando mi svegliavo sentivo il blues.
Nel 1990 Willy incide un “piccolo” album, Victory Mixture con cui omaggia i santi della città, i musicisti e gli autori del soul di New Orleans, facendo partecipare gli stessi alla realizzazione del disco, nomi storici come Dr. John, Eddie Bo, Allen Toussaint, Earl King. Il disco pur edito da una etichetta minore, la Orleans Records che in Francia è rappresentata dalla Sky Ranch (distribuzione Fnac) diventa il primo disco d’oro della sua carriera con più di 100 mila copie vendute. Un vero miracle che permette a DeVille, ormai privatosi di Mink, di andare a Los Angeles ad incidere Backstreets Of Desire, quello che è unanimemente considerato il disco più famoso della sua carriera grazie ad una intrigante versione Texico che il nostro dà di Hey Joe. Lo smilzo bad boy della bassa Manhattan è ormai un ricordo, adesso c’è un artista a tutto tondo che ha saputo fondere nel suo pirotecnico rock n’roll ampie dosi del soul di New Orleans e di mexican flavour assimilando i ritmi caraibici degli Wild Magnolias, lo zydeco blues di Zachary Richard e le romantiche ballate spagnoleggianti che parlano di eroi da malavita, amori arrabbiati e uomini che cercano di togliersi dalla cattiva strada. Il disco vede la luce nel 1992 ma che fosse New Orleans il nuovo scenario della sua vita se ne ha un primo assaggio nell’autunno del 1990 quando al Rolling Stone di Milano Capitan Uncino, questo è il suo look dell’epoca con giacche e mantelli da Pirata dei Caraibi, camicie con lo sbuffo e jabot, rimuove completamente Miracle e con un onestissimo quintetto r&b (basso, chitarra, batteria, tastiere e sax) sparge caldi umori southern con You Better Move On di Arthur Alexander e con i brani di Victory Mixture Beating Like a Tom Tom e Every Dog Has His Day. Ma il nuovo corso è santificato dall’apparizione del maggio del 1993 e dal tutto esaurito del City Square. Merito forse di Hey Joe, di certa stampa specializzata italiana che nutre per DeVille un particolare affetto e del serio lavoro di promozione degli uomini della Ricordi che si muovono con DeVille come nessun altro aveva mai fatto. I risultati si vedono, Willy è ormai una star e si può permettere una band di gran classe. La dirige Freddy Koella, un tipetto apparentemente anonimo che con le chitarre è un sorta di prestigiatore e ricava un mondo elettroacustico che abbraccia il twangin’ degli anni 50, il blues ed un inconfondibile latin mood. Willy è in forma più che mai, nella conferenza stampa del giorno precedente al concerto elargisce battute e risate oltre agli sguardi complici verso la sua nuova moglie Lisa, che è anche sua manager e al City Square è un fiume in piena. Sembra Otis Redding quando canta Key To My Heart e Hello My Lover, fa l’incantatore di serpenti con Hey Joe, strappa brividi erotici con Bamboo Road, rilancia il suo vecchio amore Stand By Me e chiude con una incandescente versione di Dust My Broom di Elmore James prima di rispolverare uno dei suoi inni del periodo newyorchese, Easy Street. Se ne va sudatissimo rimettendosi il mantello da Capitan Uncino mentre la band continua a suonare, come fosse Elvis Presley a Las Vegas o James Brown all’Apollo. Fenomenale. Qualche ora più tardi in un locale cittadino intratterrà gli invitati in un after-hour a base di vecchi blues e di vino rosso. A conclusione di questo tour apparirà nello stesso anno un Live edito dalla Fnac mentre il suo voodoo charm sarà testimoniato da Big Easy Fantasy del 1995.

Con gli stessi uomini Willy torna a Milano il 2 marzo del 1995 ma lo show pur ricopiando in larga parte lo stesso copione compreso il finale di Dust My Broom, non sarà della stessa intensità di quello di due anni prima. Causa un lungo viaggio in macchina di 12 ore che lo ha portato da Parigi, Willy è stanco e non riesce a ricreare la fantasmagoria del precedente show milanese. Il pubblico capisce e si accontenta. Quando lo rivedo quattro anni dopo è un' altra storia ancora. Capita a Parigi il 28 ottobre del 1999 al Trianon, un vecchio teatro in legno scuro usato negli anni della Belle Epoque dai chansonniers di Montmartre per i loro spettacoli. Trasuda fascino e Willy ci sta a pannello, si sente a casa e saluta Parigi chiamandola sister city. La formazione è cambiata e ridimensionata, accanto a Willy ci sono due voluminose coriste di colore, un organista, un contrabbassista ed il solito Koella alle chitarre. Il nuovo show ha un sound più scarno ed acustico ma un profondo Delta blues e la coreografia gospel delle voci femminili aumentano le suggestioni notturne ed il forte impatto emotivo e visivo. che visivamente ricordala copertina di Loup Garou dove Willy all’angolo di Bourbon Street sembra un vampiro in attesa di succulente prede. Willy è magnetico, vampiresco oserei dire, vestito completamente di nero entra in scena con una maschera da lupo mentre sullo schermo vengono proiettati le effigia di due cavalli (da poco l’artista assieme alla moglie Lisa aveva traslocato in una fattoria del Mississippi allevando cavalli e altri animali), c’è un attimo di silenzio e poi la lunga ipnotica cantilena di Loup Garou con un sottofondo di sibili, fruscii, echi, voci sommesse e sordide percussioni ulula loup-garou bal goulà. I parigini ne sono stregati ed anche il sottoscritto rimane a bocca aperta. La caliente solarità di Backstreets Of Desire si è trasformata in una notte buia e inquietante. C’è ancora New Orleans ma non è quella colorata del Mardi Gras, è la New Orleans del 1880 e del 1890, quella dell’assenzio, del voodoo, degli schiavi che scompaiono misteriosamente, di Intervista col Vampiro. Ma Willy non si limita ad apparire come un nuovo Dracula e sciorina sorprendenti delizie come la cover del classico Goodnight My Love, la straziante Carmelita di Warren Zevon, storie di due junkie nell’America degli anni ’70 e i brani del nuovo Horse Of A Different Color, in particolare Runnin’ Through The Jungle e Goin’ Over The Hill di Fred McDowell. Ricompare anche la gloriosa Steady Drivin’ Man di Return To Magenta, album tornato prepotentemente in auge, una originale Cadillac Walk senza batteria e poi Across The Borderline in versione voce/chitarra/mandolino e contrabbasso. Il bis è la ciliegina sulla torta: una kilometrica Save The Last Dance For Me ed una lentissima e strascicata Billy The Kid presa dal Dylan di Pat Garrett and Billy The Kid.
Parigi non delude mai, quello del Trianon rimane uno degli show più originali e presagisce la svolta acustica del Live In Berlin.
Quando incontro Willy DeVille nel backstage è rilassato e di buon umore, seduto su un divano attorniato dalle coriste e con la moglie vigile a distanza. Vestito con un abito da indiano di pelle scamosciata con lunghe frange riesce anche a scambiare nella confusione della stanza alcune parole. Qualche mese prima ero stato a New Orleans e per il Buscadero (n.206) avevo scritto un pezzo sul lato oscuro della città intitolato Bayou des Mysteres. Gli faccio vedere il giornale, lo sfoglia interessato e capita sul pezzo, lo guarda con attenzione e davanti alla foto di due ceffi di colore (moglie e marito) con un machete in mano che secondo un volantino locale praticano il voodoo mi dice “Come fai ad avere questa foto? Io li conosco, sgozzano galli, se vedono questa foto pubblicata su un giornale ti tagliano la gola” Sorrido ma non troppo divertito, svio il discorso chiedendogli di Carmelita di Warren Zevon e mi risponde che lui la canta meglio anche se nutre grande stima verso l’autore. Gli chiedo di Bob Dylan e di Billy The Kid ma fa finta di niente, torna tra le sue donne ed io me ne vado. La storia continua.
Il 25 ottobre del 2003 a Chiari grazie alla gentilezza di Franco e Mauro dell’ADMR, Paolo (Carù) ed il sottoscritto lo avvicinano per una chiacchierata lampo immediatamente prima del concerto. Il tempo per scambiare qualche impressione sul suo bellissimo The Willy DeVille Acoustic Trio in Berlin e assisto ad un autentico scontro tra titani (Willy e Paolo) sulla paternità di Hey Joe. Paolo ipotizza che l’autore della canzone Billy Roberts sia in realtà Dino Valenti (cantante dei Quicksilver morto per aneurisma nel 1994), Willy, capelli lunghissimi neri e lisci, pizzetto e baffi sottili, una camicia bianca con pizzi, nega secco e ribadisce l’origine messicane di Hey Joe, “Dino Valenti era un uomo molto impegnato ed ha preso idee da ogni parte, sicuramente l’ha cantata ma non penso che l’abbia scritta lui Un tizio mi ha detto che questa canzone veniva cantata in Messico più di cinquantanni fa”.
Quello del 25 ottobre 2003 è un DeVille che terrà la scena da grande e temprato performer ma è un uomo provato dalle vicissitudini della vita. Dal 2000 si è disintossicato da una ventennale dipendenza dall’eroina e ha di nuovo traslocato, spostandosi a vivere a Cerrillos Hill nel New Mexico. Una tragedia ha però segnato la sua vita: sua moglie Lisa si è suicidata in un periodo in cui Willy si era innamorato di un'altra donna. Fuori di testa per il dolore l’artista è uscito di strada con l’auto e l’incidente gli ha procurato una tripla frattura della gamba. Sul palco zoppica e si aiuta con un bastone oltre che con qualche bicchiere di vino ingollati in un colpo solo. Sono con lui il contrabbassista David Keyes ed il pianista Bill Mitchell nella stessa dimensione trio acustica del Live In Berlin. La voce con il tempo si è fatta strepitosa, profonda come una caverna, capace di passare dall’anima al cielo nel volgere di qualche secondo. Seduto su uno sgabello o appoggiato al pianoforte Willy rilegge alcune canzoni (sue e di altri) immortali (Trouble In Mind, Spanish Harlem, Big Blue Diamond, Betty&Cupree, Since I Met You Baby) con l’intimità del grande incantatore che va all’essenza del blues, del soul e del jazz. Nessun orpello, nessun colpo elettrico, solo un piano, un contrabbasso, il fumo delle sigarette, i silenzi spezzati dalla sua voce incredibile, una performance di rara intensità che, partita in sordina, arriva a commuovere con le drammatiche versioni di Heaven Stood Still (Le Chat Bleu) e Nightfalls (Miracle). Un concerto sofferto e venato di malinconia.
A Chiari ci passa un’altra volta, poi nel 2004 torna a Los Angeles per registrare Crow Jane Alley, terzo disco col produttore John Philip Shenale in cui piange la perdita dell’amico Jack Nitzsche. “Io e Jack ci siamo conosciuti e siamo diventati subito amici, io ho influenzato lui e lui ha influenzato me. Era uno vero e non ci metteva molto a partecipare a qualsiasi cosa avessi in mente, abbiamo fatto tre dischi assieme ed è stato il più bel periodo della mia vita. Jack mi manca molto, era il mio migliore amico, il mio fratello di sangue”.
Adesso Willy si veste e porta monili da nativo Americano, i suoi capelli neri sono lunghi come quelli di un Apache, il suo viso è sempre più spigoloso, il suo sguardo penetrante. Dopo quindici anni torna a vivere nella sua New York con la terza moglie Nina. E’il suo ritorno a casa. C’è qualcosa di sinistro in tutto questo. L’ultima volta che lo vedo è a Trezzo d’Adda il 14 marzo 2008 e per l’occasione ha ripristinato il nome Mink DeVille. La band annovera vecchie conoscenze degli anni ’80 e ’90 (il batterista Shawn Murray, il percussionista Boris Kinberg) ed un paio di coriste ma il sound è virato verso un elettrico rock urbano, graffiante, velenoso, nel più classico idioma newyorchese. Un ritorno al passato che Willy, pallido, con occhiali, camicia bianca e palandrana nera avvalora ripescando Cabretta attraverso belle versioni di Mixed Up Shook Up Girl, Spanish Stroll, Venus Of Avenue D e con un uso massiccio della Gibson suonata alla Chuck Berry e Keith Richards. Non è un concerto memorabile ma Willy sembra sopravvivere a sé stesso grazie alla musica. Musica che abbraccia il blues di Muddy Waters Rose Out of the Mississippi Mud, la punkeggiante White Trash Girl, la nerissima Bacon Fat e gli scampoli del suo New York soul. Trova posto anche il sottovalutato Pistola con So So Real e Been There Done That. E’ l’ultimo atto della storia. L’ultimo di noi a parlare con lui è Paolo Carù (intervista nel N.298) all’indomani dell’uscita di Pistola. E’un Willy DeVille sfuggente e un po’ confuso, che non parla quasi mai di musica e tende a portare la discussione su un piano gradito a lui.
Nel febbraio del 2009 gli viene diagnosticato l’epatite C e a giugno gli viene scoperto un cancro al pancreas. Muore il 6 agosto in un ospedale di New York tre mesi prima del suo 59esimo compleanno. La stampa ufficiale non gli ha mai prestato molta attenzione, specie negli Stati Uniti e continua a farlo anche alla sua morte. Poche righe di circostanza e nulla più. Come uno qualsiasi. Per noi rimane una divinità. Sia lode a te, zingaro della musica e delle emozioni.

MAURO ZAMBELLINI SETTEMBRE

martedì 3 agosto 2010

Blasters Hard Line


Dopo venticinque anni il capolavoro dei Blasters, Hard Line è ristampato per la prima volta.

Dopo due album (in realtà tre visto la pubblicazione di American Music per la Rollin’ Rock poi tolto dal mercato) ovvero The Blasters del 1981 e No Fiction con cui il gruppo di Downey, periferia di Los Angeles, aveva rilanciato il rock n’roll degli anni cinquanta dentro il circuito del punk portando una ventata di contagiosa energia a base di rockabilly e R&B, la band dei fratelli Phil e Dave Alvin a metà degli anni ottanta firma il proprio capolavoro. Un disco magistrale che purtroppo suonerà come epitaffio della loro avventura, almeno della parte più luminosa della loro carriera.
Nel 1985 viene pubblicato Hard Line e i cambiamenti rispetto all’arrembante rock n’roll dei dischi precedenti sono subito evidenti. Dallo stile tutto sommato derivativo dei primi lavori, pur caratterizzati da un approccio sorprendentemente originale al rock n’roll si passa ad un rock più complesso, profondo e sfaccettato che abbraccia la dura linea dei dischi di Bruce Springsteen e John Mellencamp che in quell’anno si chiamano Born In The Usa e Scarecrow. Proprio Mellencamp con lo pseudonimo di Little Bastard fa da produttore esecutivo al disco.
Il parto di Hard Line è difficile e comincia con la dipartita del sassofonista Steve Berlin verso i Los Lobos e con la scelta di un produttore esterno, nell’intento di sfondare il muro delle radio e finire nella heavy rotation nazionale.
È la prima volta che i Blasters si rivolgono a qualcuno al di fuori della band, la scelta cade su Jeff Eyrich che in quegli anni aveva prodotto i dischi dei Plimsouls (Everywhere at Once), dei Rank and File (Long Gone Dead) e T-Bone Burnett (Proof Through The Night) tre lavori che spaziano tra power-pop, country-punk e rock d’autore e dicono di una mentalità aperta e senza preconcetti. Le registrazioni vanno però per le lunghe perché il clima interno al gruppo non è idilliaco e sui fratelli Alvin si abbatte il lutto per la perdita della madre.
Phil e Dave vogliono uscire dalla nicchia ma non sanno bene che pesci pigliare per dare una nuova direzione al Blasters-sound. Dave si affina come songwriter non limitandosi a ciò che aveva già fatto in termini di puro e nudo rock n’roll. La Warner sollecita il gruppo a registrare ulteriori tracce dopo le prime registrazioni e allora compaiono Just Another Sunday co-scritta da Dave con l’amico John Doe degli X e Colored Lights scritta da John Mellencamp, entrambe prodotte dall’ingegnere del suono Don Gehman. I Blasters entrano in contatto con Mellencamp in una vacanza in Italia, a Capri nel 1982 e qualche anno dopo chiedono il suo intervento per alcune canzoni da mettere nell’album. Lo stesso Mellencamp li introduce a Don Gehman che in quegli anni aveva lavorato ai dischi American Fool e Uh-Uh dandogli quel suono FM oriented che i Blasters cercavano.

Hard Line è un disco che risente di diverse mani ma forse proprio per questo è ricco di dettagli e angolature che i dischi precedenti non avevano, più realisticamente collocato in quel heartland rock che in quei giorni ribadiva l’affiliazione con le radici e i temi della musica americana ergendo una diga contro l’effimera artificiosità del pop e del rock anni ottanta. Dave Alvin ne è il protagonista anche se imprescindibili sono le parti vocali di Phil. Un disco innovativo ai tempi e ancora attuale adesso, sebbene siano passati venticinque anni dalla sua pubblicazione. Un lavoro che marcia in nuove direzioni con il tema chicano/cajun di Hey, Girl impreziosito dall’accordion di David Hidalgo, col rude affondo nei territori dei Creedence di Dark Night dove si fanno sentire il mandolino di Hidalgo, il violino di Richard Greene ed il contrabbasso dell’ex Canned Heat Larry Taylor, con le potenti e chitarristiche Trouble Bound e Just Another Sunday e col mainstream rock di Colored Lights firmato da Mellencamp.
La nuova identità sonora dei Blasters è poi rafforzata dalle osservazioni di Common Man sui politici ciarlatani, esplicito riferimento ai danni dell’era Reagan e dal bagno doo-woop di Samson and Delilah e Help You Dream con le voci dei Jordanaires.

Un disco di deciso orientamento roots, più adulto nei testi e nel sound rispetto alla briosità e alla velocità punk dei primi lavori. Purtroppo nella ristampa non ci sono bonus tracks a dimostrazione che quel disco nacque in un periodo tribolato. Difatti subito dopo la pubblicazione di Hard Line se ne va il pianista Gene Taylor e dopo un disastroso show nel novembre del 1985 a Montreal anche Dave Alvin lascia il gruppo avviandosi verso una felice avventura solista.

Con Hard Line si chiude il periodo d’oro dei Blasters, in seguito ci saranno diverse reunion testimoniate da due live di buona fattura: Trouble Bound del 2002 e Going Home del 2004.

MAURO ZAMBELLINI LUGLIO 2010


PS: leggi dei Blasters sul Blue Bottazzi BEAT