venerdì 30 luglio 2010

Narcao Blues Festival 2010


Nella panoramica dei festival estivi dedicati al blues Narcao si segnala per la longevità e soprattutto per la caparbietà con cui ha promosso in Sardegna, luogo a torto considerato alla periferia dell’impero, il blues in tutte le sue forme. Va dato atto agli organizzatori di non essersi mai arresi alle difficoltà e di aver perseguito con tenacia e passione la propria “missione” ovvero far conoscere il blues in una regione che spesso è ricordata solo per le vacanze dei vip. Nel corso degli anni da Narcao sono passati grandi e piccoli nomi del blues internazionale e nazionale ma la scelta non si è limitata solo all’ufficialità del genere perché le assolate terre del Sulcis hanno assaporato le gesta di outsiders non sempre apprezzati dai puristi come ad esempio Anders Osborne, Neville Brothers e Willy De Ville.
In una cornice che assomiglia molto ad un paesaggio del New Mexico, nell’entroterra della provincia di Carbonia ad una ventina da un mare che non ha equivalenti nell’intero Mediterraneo, tra il 21 ed il 24 luglio è andato in scena il 20esimo (dico venti, un numero importante) Festival del Blues, quest’anno partito con una serata dedicata a Jimi Hendrix, morto il 18 settembre di quaranta anni fa.
Sonny Landreth e Popa Chubby gli artisti selezionati per onorare la mano sinistra di Dio, due chitarristi dallo stile differente che hanno onorato il compito con due set infiammati e potenti appagando gli esteti del Fender sound e i giovani affamati di rude e torrido rock-blues. Il pubblico, mai così numeroso, è andato in visibilio sia con Sonny Landreth, autore di un set tecnico ed inappuntabile, sia con Popa Chubby artefice di uno show viscerale e muscoloso. Assieme a Sonny Landreth e alla sua inseparabile Fender Stratocaster rossa c’erano il bassista David Ranson, anche lui nei Goners di John Hiatt ed un batterista, Brian Brignac, che mi ha stupito in quanto a dinamismo e tempismo, un batterista che mi ha ricordato Stewart Copeland. Il set di Landreth è stato tutto all’insegna del virtuosismo e della velocità, poche parti cantate, ridotte le parti melodiche in favore di un suono che scende come un torrente di note, di scale armoniche, di assolo e ritmo con poche ballate ed un drive impressionante. La straordinaria tecnica chitarristica messa in campo ha sacrificato un po’ il feeling ma il pubblico ha apprezzato e applaudito le cavalcate di Z Rider, di The U.S.S Zydecoldsmobile, di Milky Way Home, di Wind In Denver, di Promised Land, di Hell At Home e dell’ omaggio a Hendrix di I Don’t Live Today. Quando sale sul palco il voluminoso Popa Chubby l’atmosfera è già sufficientemente surriscaldata e ci vuole poco prima che il trio del newyorchese richiami sotto il palco tutta la sezione giovani del festival che suda e si attorciglia attorno ai brucianti assolo di Hey Joe e Spanish Castle Magic. Chubby è in forma e sta bene, sembra non soffrire il caldo perché la notte è calata e il suo hard-rock/blues da power trio gronda sangue, sudore e polvere da sparo. Esegue qualche brano del suo repertorio (Rock n’Roll Is My Religion, NYC 1977 Till, Already Stoned) enfatizzando assolo e cantato, omaggia la sua città New York con una versione sincopata e funky di Walk On The Wild Side di Lou Reed e poi si scatena in un finale ad effetto con citazioni di Black Sabbath e Led Zeppelin e con una bella e intensa versione di Little Wing. Alla fine Piazza Europa è in ebollizione.
Di tutt’altro tenore la serata seguente, quella del 22 luglio, con Eric Bibb e Larry Carlton Band. Quest’ultimo dispiega un jazz/rock elegante che concede poco al blues e molto più alla fusion ma molto più emozionante mi appare Eric Bibb il cui vellutato country-blues vociferato con calda e profonda voce soul arriva al cuore senza il bisogno della chitarra elettrica. Inizia lento, quasi dimesso con Kokomo e Stagolee poi sale e diventa un gigante infarcendo il blues con spezie caraibiche e reminiscenze di Mississippi John Hurt. Il suo intimacy of the blues cattura il cuore e gli animi sensibili con Right On Time, River Blues, Don’t Ever Let Nobody Drag Your Spirit Down e con classici quali Nobody’s Fault But Mine e Goin’Down The Road Feelin’ Bad dove rapisce letteralmente il pubblico che contraccambia con un sentito, commovente e lungo applauso, a dimostrazione della maturazione raggiunta dopo aver partecipato a ventanni di concerti blues in tutte le salse, comprese quelle più povere e difficili come quella di un Erci Bibb solo ed in acustico.
Delusione, non si può chiamarla in altro modo l’esibizione di Peter Green pur applaudita da un pubblico comprensivo del suo precario stato psicologico. L’artefice di tanti dischi che mi hanno fatto sognare in gioventù facendomi appassionare al rock/blues non c’è più, è solo un pallido ricordo l’autore di Then Play On, di Rattlesnake Shake, di Oh Well, di Black Magic Woman, degli incredibili live al Boston Tea Party, di tutta quella meraviglia firmata Fleetwood Mac. Purtroppo Peter Green ha smesso di essere The Supernatural da parecchio tempo ma gli amici che lo accompagnano attualmente, Friends, sono i peggiori amici che uno può avere e non giovano minimamente alla sua già precaria causa, una band imbarazzante che non aiuta e non può aiutare il già stentoreo Green. Musicisti piuttosto improvvisati e dilettanteschi che contribuiscono a comporre un set dove Green possa pungere con efficacia. Chi si salva è lo stesso Green perché dopo un avvio incerto ed una voce stentorea la sua Gibson SG prende quota e dopo essersi scaldata con un po’ di classici ( Key To Highway, You Don’t Love Me, When The Lights Out, Stranger Blues, Blues Get Off My Shoulder) riesce ancora a spiccare il volo con Oh Well, Albatross, con la lunga e melodica versione di Oh Pretty Woman di Albert King, con la dolce e commovente riproposizione di Rainy Night In Georgia di Tony Joe White e con una ritmata ripresa di Off The Hook dei primissimi Rolling Stones lasciando venir fuori il suo lirismo e la sua magia, sprazzi di una grandezza che fu.
All’insegna dell’allegria più sfrenata e contagiosa la conclusione del Festival dopo che sul palco erano passati il Mark DuFresne Organ Trio e il Joe Cleary Trio. Letteralmente invaso dalla sarabanda della Dirty Dozen Brass Band l’ensemble di ottoni, percussioni e chitarre che ha riversato l’euforia e la gioia di vivere di New Orleans nelle terre del Sulcis-Iglesiente con una cascata di suoni, colori, ritmi, gag, improvvisazioni, assolo che hanno trascinato l’intera piazza facendo ballare anche i morti e riproponendo la vitalità di una musica che non ha eguali sul nostro pianeta. Tra Saints Go Marchin’ In , echi voodoo, ritmi tribali e caciara da Bourbon Street si è consumato il rito di una New Orleans indomita anche alle catastrofi, benedetta da una yellow moon che nel cielo blu di Narcao sovrastava il finale frizzi e lazzi di un festival che almeno una volta nella vita bisognerebbe vedere.

MAURO ZAMBELLINI

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