mercoledì 21 aprile 2010

Willie Nile #4


(continua)

Ne è passato di tempo, quasi tutti i nuovi Dylan si sono persi, nessuno è diventato Dylan ma Willie Nile è rimasto quel folletto arguto, vivace, pieno di cuore ed entusiasmo che saltava impugnando la Fender voltando le spalle al pubblico e volgendo lo sguardo al proprio batterista, che altri non era che Jay Dee Daugherty, quello che ancora oggi suona nel Patti Smith Group. Nile non ha fatto una carriera esorbitante, c’era da aspettarselo, troppo cuore ed eleganza per entrare nel ring ma nemmeno è diventato una figura patetica del Greenwich che fu. Ha continuato per la sua strada, pubblicando dischi in giusta misura, né troppi né troppo pochi, togliendosi dalla circolazione per un po’ di tempo ma continuando con la sua arte e non avvilendosi perché i tempi erano cambiati. Ha saputo aspettare e poi due anni fa ha giocato il jolly con un disco, Streets Of New York, che rimetteva in scena la boheme di New York come lui la sapeva cantare, con una selezione di canzoni che, senza retorica passatista, coniugavano lo spirito poetico del songwriter con una schietta dimostrazione di rock urbano. House Of A Thousand Guitars il nuovo disco è il degno successore di quel lavoro e, come suggerisce il titolo, è ancora più venato di rock’n’roll e chitarre elettriche anche se, come è nella tradizione dellíautore ci sono anche languori, malinconie e ballate. Con l’atteggiamento spavaldo e scapigliato che lo ha sempre contraddistinto e con il solito amore per le strade e i romanzi, Willie Nile si ripropone al meglio recuperando il sound aguzzo ed essenziale del suo primo disco. House Of Thousand Guitars gioca sul fatto di avere una band, gli Worry Dolls, che sembra tagliata su misura su Nile, col chitarrista Andy York (John Mellencamp) talmente bravo nel sintetizzare un assolo da togliere qualsiasi grasso in eccesso ed una sezione ritmica, il bassista Brad Albetta ed il batterista Rich Pagano che conoscano a memoria il groove newyorchese ovvero quel misto di arditi saliscendi che sembrano le montagne russe ritagliate sulla skyline della città. E’ vero che gli Worry Dolls partecipano solo a metà nel disco perché il resto è affidato all’inseparabile Frankie Lee nelle vesti di batterista, a Steuart Smith nelle vesti di chitarrista e Stewart Lerman in quella di bassista ma l’amalgama è perfetta ed al di là di qualche sfumatura il disco suona omogeneo e compatto. Che le chitarre, compresa la Stratocaster di Nile, siano costantemente all’offensiva lo dice il titolo del disco e la canzone-titolo, un vorticoso rock dove vengono citati i nomi dei grandi santi del rock (Hendrix, Stones, Dylan, Robert Johnson, Hank Williams, John Lee Hooker, Muddy Waters, John Lennon) in una sorta di omaggio a quella lezione musicale di cui Nile è figlio.

Willie Nile: “House Of Thousand Guitars l’ho scritta dopo che avevo fatto un sogno nel quale c’era un luogo dove alcuni grandi musicisti, Dylan, Hendrix, Robert Johnson, gli Stones, John Lennon, Muddy Waters e John Lee Hooker, potevano rifugiarsi fuori dal caos e dalla follia del mondo e suonare la loro musica senza tutta la follia che li circondava”.

Lezione che si ripropone nel vortice di ritmi e guitar sound di Run, un pop veloce e frizzante e nel tono rollingstoniano di Doomsday Dance. Poi c’è uno di quei brani che entrano nel cuore e fanno la storia di un artista, Love Is Train è metà ballata e metà rock’n’roll, ha forza, onestà e freschezza per diventare uno dei classici del nostro. Cosa che succede anche a Magdalena sguaiato trash-punk da lower east side con le chitarra di Nile e York che gracchiano sporche, urgenti, insolenti e The Midnight Rose, enfasi springsteeniana e grande lavoro di squadra per un brano che ha muscoli e cuore in giusto dosaggio. Ma è nelle ballate che si rincontra il Nile della New York City serenade, nello splendido titolo di Her Love Falls Like Rain dove qualcuno potrà scorgere armonie vagamente beatlesiane, in Little Light dove sembrerà di essere in uno di quei momenti del concerto in cui tutti cantano con l’accendino in mano ed in Touch Me dove si verrà coinvolti da ricordi e malinconie attraverso la voce commossa del protagonista e del suo pianoforte. Poi il finale, non troppo enfatico anche se già il titolo, When The Last Light Goes Out On Broadway, dice di quanto sia bravo Willie Nile a cantare l’anima profonda di New York City. Alla conclusione di una lunga stagione fortunata, vedrà Willie Nile sul palco con Bruce Springsteen nella data finale del Working On Dream Tour, proprio a Buffalo. Non era la prima volta che il duetto diventava una realtà, ma il fatto (il dato) che sia avvenuto nella città (d’origine) di Willie Nile e su una canzone che è patrimonio comune (Higher And Higher) quasi a chiudere un discorso o a arrivare alla fine di un lungo viaggio in circolo, chi in un modo chi nell’altro, con Willie Nile che sigla così: “Vivo la vita. Scrivo col mio cuore, scrivo come la vita richiede. Questo è il solo segreto, sento ancora lo stesso fuoco e la stessa passione che sentivo quando sono arrivato in città. Non conosco altri modi”.

Trent’anni fa, un grande scrittore di rock’n’roll, Robert Palmer, vide con chiarezza, e prima di chiunque altro, lo spessore della personalità di Willie Nile. Notando come fosse nello stesso tempo un perfetto testimone della sua epoca e un iconoclasta, per quanto avvolto in un’aura di gentilezza e romanticismo. Era il 29 luglio 1979 e Robert Palmer scrisse che Willie Nile era “un artista iconoclasta e nello stesso tempo quasi la perfetta espressione dei tempi correnti”, una contraddizione di termini che però è perfetta per raccontare Willie Nile. Da allora è successo di tutto, ma l’impressione che fa Willie Nile è ancora la stessa. Willie Nile è un piccolo romanzo del rock’n’roll che regala canzoni che entrano nella pelle, che trafiggono il cuore e suonano dure l’ultimo atto di rivolta contro il degrado dei nostri tempi”. Un uomo che è la sua storia, non se la deve inventare e/o reinventare ad ogni occasione. Un musicista che vive in una “casa di mille chitarre” e non ha bisogno di aggiornare o riformare il proprio stile perché il rock’n’roll contiene tutti gli elementi necessari per riempire una vita (anche di più). Un cittadino di NYC che ha vissuto tutte le stagioni (musicali) della città, che ha contribuito (lui stesso) a ridefinirne il sound, ma che (a differenza di molti colleghi e coetanei) non si è fatto fagocitare. Quando ai due estremi di una storia, non priva di svolte, anche piuttosto complesse e difficili, l’immagine che appare è sempre la stessa, vuol dire che c’è stato un flusso di coerenza senza soluzione di continuità, un modo di essere e di esistere che ha retto negli anni... Pur essendo originario di Buffalo, Willie Nile ha raccontato (e continua a raccontare) New York come nessun altro. Willie Nile a proposito di New York: “E’ buia, è selvaggia, è pericolosa, è sporca ed è magica”. Ed è ancora lì.

(Mauro Zambellini & Marco Denti 2010)

1 commento:

stefano ha detto...

“Un artista iconoclasta e nello stesso tempo quasi la perfetta espressione dei tempi correnti”. Mi suona incomprensibile: i 'tempi correnti' (1979) non sono l'apice dell'iconoclastia considerando la dominante punk? E poi, in cosa consisterebbe la componente iconoclasta di Willie Nile? Uno che si mette la mano sul cuore per comunicare il proprio sentimento al pubblico e che per più volte in una serata chiama le sue canzoni 'preghiera'. Non riesco proprio a comprendere: se qualcuno può fare luce...