martedì 29 dicembre 2009

The End Of The Year 2009


Un buon anno il 2009 per il rock n’roll a cominciare dai concerti che si sono visti dalle nostre parti.

Straordinario quello della rinata Dave Matthews Band tenuto all’inizio di luglio a Lucca testimoniato ora dalla pubblicazione di un box di tre cd (Lucca) ed un Dvd (Londra) DMB 2009 Europe in verità un po’ caro (attorno alle 60 euro) ma superlativo in quanto a musica e virtuosismi.

Altro emozionante show quello inscenato da Wilco, gruppo di punta del recente rock americano arrivato al top della propria creatività, al Conservatorio di Milano davanti ad un pubblico in delirio. Un set furioso ed estatico che ha messo insieme avanguardia e songwriting, feedback e melodia, rock n’ roll e rumore, Beatles e Sonic Youth in quello che è sembrato il concerto più originale dell’attuale panorama internazionale del rock. Se siete a digiuno di Wilco o l’ultimo loro album non vi ha del tutto soddisfatti (nettamente migliore il precedette Sky Blue Sky) consiglio vivamente di rifarvi con il Dvd Ashes Of American Flags, una sorta di road movie costruito attorno ad un loro tour nella profonda provincia americana con tanto di landscapes, strade, ponti, ghostown, brevi interviste ed estratti di concerto. Un lavoro sublime e suggestivo che fonde musica con immagini degne di un regista come Wim Wenders.

Possente e lirico, sebbene in taluni frangenti della loro musica questi due aggettivi frizionano fino a stridere, il monumentale show che i Gov’t Mule hanno tenuto in novembre all’Alcatraz di Milano a supporto di un album, By A Thread che è tra i migliori e più “ascoltabili” della loro produzione in studio.

Chi lo aveva visto in azione nel 2008 aveva già brindato alla sue energia e brillantezza ma anche quest’anno John Fogerty, a dispetto di un disco un po’ scialbo, non ha deluso. L’ho visto nell’incantevole cornice palladiana di Piazzola del Brenta con una band sontuosa in cui spiccava il drumming potente dell’indemoniato Kenny Aronoff e devo ammettervi che in quanto a puro rock n’roll e a canzoni da cantare a squarciagola Fogerty non è secondo a nesuno. Mi è capitato di vederlo solo pochi giorni dopo quello di Springsteen a Udine e con tutto l’amore e la stima che nutro per il Boss quest’anno l’incontro è finito 2 a 1 per l’ex Creedence.
Springsteen quest’anno mi ha deluso un po’, forse l’ho visto troppe volte, forse il suo Working On A Dream non è quel sogno che tutti ci aspettavamo ma il suo show del 2009 mi è sembrato un po’ troppo karaoke pop-olare con poco rock n’roll e troppo sing along.

Magnifico il concerto agli Arcimboldi, luogo che continuo a reputare insulso per la mia idea popolare di rock in virtù anche di biglietti dal costo elitario, di Ry Cooder, figlio e Nick Lowe ma qui è come entrare da Tiffany per una signora amante del lusso. Raffinato e colto, romantico e zeppo di storia oltre che di umore, il loro show è stato di una prelibatezza senza eguali, haute cousine per grandi intenditori, delusi solo dalla scarsezza delle porzioni. E’ durato si e no un’oretta, per sessanta e passa euro mi è sembrato un po’ pochino, anche in tempo di crisi.

Sono andato perché mi hanno offerto il biglietto, non sono mai stato un suo grande fan ma il concerto di Jackson Browne a Milano è stato davvero bello. Una band coi fiocchi, uno show diviso in due parti, con un po’ di roba nuova e tanti brani dell’antico e glorioso passato west-coast, canzoni che non sai se ridere dalla gioia quando li senti o piangere dai ricordi, ex hippies ora liberi professionisti dai capelli grigi e belle signore dal fisico conservato, tanta nostalgia di California ed il vento leggero di Running On Empty. Una sorpresa, a tutti gli effetti, un concerto caldo e positivo, senza retorica ma orgoglioso. Un brother Jackson ritrovato ed in forma.

Passiamo ai dischi, oops ai Cd. Tra le cose migliori il nuovo Ian Hunter, Man Overboard, commovente con quelle ballate che emanano fuliggine londinese e spirito battagliero (Arms and Legs è la ballata dell’anno) e sferzante quando mette in pista il sound amarognolo del rock inglese dei seventies cresciuto nei club e nei pub. E’ un disco entusiasmante ed emozionante, onesto e sincero Man Overboard, il magnifico lavoro di un grande vecchio del rock. Hunter ha settanta anni e quest’anno se li è festeggiati con una applaudita reunion dei Mott The Hoople e con una bella ristampa di You’re Never Alone with a Schizophrenic, disco newyorchese del 1979 dove si trovava in compagnia di Mick Ronson e di alcuni della E-Streeters per quello che è uno dei must del suo catalogo. All’originale disco hanno aggiunto un Cd tutto dal vivo del genere Welcome To The Club ovvero roba pesante, da maneggiare con cura.

Un altro vecchio che non ha fallito nemmeno quest’anno è il caro vecchio Bob. Il suo Together Trough Life è intenso e romantico, sporcato di fisarmoniche messicane, immediatezza folk e chitarre blues, un disco dolente e quasi sgangherato come i suoi attuali concerti, un lavoro di strada da parte di un artista che è l’essenza intrinseca del rock. La prima decade del nuovo secolo ha significato per Dylan una rinascita creativa, prima Love and Theft, poi Modern Times ed il memorabile Tell Tale Signs delle Bootleg Series, adesso Together Trough Life, i dylanologi ufficiali non condividono ma i rockisti si leccano dita e baffi. Chi l’ha detto che non si poteva suonare rock n’roll dopo i trentanni? Guardate Hunter e Dylan e poi ditemi se quando si è giovani non si è inclini alle cazzate.

Della serie altri vecchi crescono ecco Eric Clapton, “giovane” a seconda dei giorni, e Steve Winwood che chi l’ha visto in concerto a Milano ne ha detto un gran bene. Si sono riuniti al Madison Square Garden dopo 40 anni e hanno fatto uscire un doppio live che ha lo stile dei double live album degli anni ’70. Rock potente, suonato con maestria incrociando blues, pop, R&B e psichedelia con titoli che sono di per sé una leggenda. I Cream, lo Spencer Davis Group, i Blind Faith, Hendrix, Ray Charles, Muddy Waters, i Traffic e J.J Cale tutti in un colpo solo. Il classico dei classici, come bere uno champenoise superiore del Franciacorta.

Visto che di live abbiamo parlato all’inizio non vorrei dimenticarmi della The Live Anthology di Tom Petty con gli Heartbreakers. Quattro Cd nell’ edizione economica, cinque in quella deluxe e the last great american band vi porta dove i vostri sogni vorrebbero essere ovvero su quelle strade d’America che dalla California dei Byrds arrivano alla Florida dello swamp-rock, dal punk di Century City alla Ballad of Easy Rider, dai Fleetwood Mac importati di Oh Well a Dylan, dai Southern Accents a BoDiddley, dalla pioggia della Louisiana a Dreamville, da Green Onions ad American Girl. Come scrivere una storia del rock americano usando chitarre, batteria ed Hammond al posto della macchina scrivere, l’equivalente rock n’roll di On The Road di Jack Kerouac.

Non è finita. In quanto ad american music i Black Crowes dopo aver giocato per una decina d’anni con la british invasion di Stones, Free, Led Zeppelin e Faces adesso hanno riscoperto The Band e le montagne di Woodstock ovvero la genesi in chiave rock della roots music. Before The Frost… Until The Freeze è il loro disco più pastorale ed invernale ma è caldo come una serata con amici attorno ad un camino acceso. Magnoni di lana, tappeti sotto i piedi, una buona bottiglia di vino rosso e quella profumata marijuana che ha porta l’amico americano di nome Chris.

Dei loro amici Muli abbiamo già detto sopra ma se Warren Haynes è da iscrivere come il vero guitar hero dei giorni nostri, anzi come qualcuno ha detto il titano della Gibson, non va dimenticato il suo compare Derek Trucks che con lui divide le corde nell’ultima edizione della Allman Bros. Band. Il suo nuovo Cd, Almost Free non è sperimentale come il precedente Songlines ma mischia soul, jazz e blues con un tocco di classe soprafino, è originale ed elegante, non assomiglia a nessun altro disco del genere e suona fresco come pochi. Sentire per credere, si apre con Down In The Flood pescata dai Basement Tapes di Dylan ma rifatta ex novo e poi va avanti tra illuminazioni soul (Sweet Insipration) e ventate di rock/blues che confinano col jazz e con l’etno.

Mi rimane da segnalarvi il piccolo e coriaceo Willie Nile che continua a cantare delle strade di New York come fossimo nel 1980. Il suo House of A Thousand Guitars ha indurito la vena ritrovata del precedente i Streets Of New York incattivendo la sua poesia con un salutare sound di Fender (Andy York); i Lucero che con 1372 Overton Park dimostrano di aver lasciato alle spalle l’alternative country più ortodosso per approdare ad un rock memphisiano dove si scorgono ombre di Big Star, Replacements e e dei Del Fuegos di Smoking In The Fields e i Drive By Truckers, figli anomali di un sud lacerato, che con Live From Austin rivelano di essere più vicini a Neil Young e i Crazy Horse che ai Lynyrd Skynyrd.

Last but not least the italians ovvero il terreno minato per ogni recensore che si rispetti. I Cheap Wine a detta di tutti, anche del sottoscritto, hanno fatto il loro disco più maturo, variegato, profondo (nei testi e nei suoni), originale e suonato meglio (Spirits) confermandosi una band con i controcoglioni, ottimi musicisti e validi autori ormai degni di una platea internazionale.
Una menzione anche ai roots-rockers dell’Oltrepò Pavese ovvero i Mandolin Brothers gruppo che spumeggia mexican flavours, blues pachuco, dixie chicken e diari di viaggio messi a canzone. Il loro 30 Lives! è il party record del San Silvestro della Bassa.

Purtroppo il 2009 è stato l’anno della scomparsa del gitano delle emozioni Willy DeVille, artista di grandezza inestimabile ignorato dal mondo dei pusillanimi sia in vita che in morte, a cui va il mio sentito e addolorato ricordo.
Buon anno a tutti, anzi no, solo a quella parte d’Italia per cui tolleranza, solidarietà, cultura e giustizia sociale significano ancora qualcosa. Gli altri vadano a quel paese che, purtroppo, oggi è il loro.

Mauro Zambellini

domenica 20 dicembre 2009

Gypsy Soul #1


A margine dei primi anni settanta alcuni songwriters furono influenzati dalla musica afroamericana, a partire dal R&B per arrivare al jazz, quasi in netto contrasto con la tensione folkie dei loro rispettivi colleghi degli anni sessanta, in primis Bob Dylan.
Nacquero così dischi come Moondance di Van Morrison, The Wild and The Innocent di Springsteen, Alias I di Dirk Hamilton, The Heart Of Saturday Night di Tom Waits, Solid Air di John Martyn.

Ad un certo punto all’inizio degli anni settanta, dopo che i bagliori dei sixties si erano spenti o avevano perso di luminosità, ci furono artisti e songwriters che rivolsero la loro attenzione verso la musica nera, sentendo l’esigenza di rinfrancare la loro musica e le loro composizioni con il soul, il jazz, il R&B, in nome di una maggiore libertà espressiva. Questi autori e cantanti, alcuni dei quali provenivano dal movimento folk e rock degli anni sessanta, trovarono naturale contaminare la loro ispirazione coi suoni della musica afroamericana , non tanto per emulare i loro colleghi di colore o per appropriarsi di una tradizione come era invece successo col british blues ma piuttosto per adeguare la loro creatività ai fremiti libertari di un epoca che stava vivendo un particolare momento culturale e sociale.
La psichedelia aveva già offerto ampi margini di libertà ad esplorazioni di vario tipo ma questa costituiva terreno di battuta soprattutto per le band e i gruppi che facevano della sperimentazione strumentale la loro innovazione ma per i solisti e i songwriters legati alla forma canzone il campo era più ristretto perché c’erano tempi e metriche da rispettare. Questo nonostante che Like a Rolling Stone di Dylan avesse affermato la rottura di certe barriere e il superamento dei tre minuti della canzone folk e della sequenza strofa/ritornello/strofa della canzone pop.
Contò molto in questa evoluzione stilistica una generale liberazione delle coscienze , quell’ autoconfessarsi in un pubblico che aveva investito vari ambiti del movimento giovanile e che si tradusse nel rock in un modo di cantare e scrivere molti simile ad un letterario stream of consciousness. L’esempio più calzante è offerto da Astral Weeks nella musica bianca e What’s Goin’On in quella nera, archetipi di questo fiume di suoni, parole, silenzi e note in cui poesia e musica si confondono e si abbracciano.


Inner City Blues
Fu la musica afroamericana ad offrire ad autori come Van Morrison, Dirk Hamilton, Laura Nyro, la spregiudicatezza melodica e ritmica per evolvere a livello di scrittura e di interpretazione, liberando la propria creatività in composizioni lunghe ed elusive, fatte di silenzi e di improvvise impennate liriche, di ballate dai toni introspettivi, di rocamboleschi shuffle di soul, blues e jazz in cui ritmo e improvvisazione rispondevano ad una anarchia stilistica a volte difficile da maneggiare.
Quello che fino a poco tempo prima era stato un mondo a parte, con proprie città, proprie etichette, proprie classifiche ovvero la black music adesso irrompeva nei Cafè del Village, nei club del Sunset Boulevard e nei campus universitari. Fu importante il periodo, il passaggio tra i sessanta e i settanta, due epoche più che due decadi e alcuni dischi. Il 1970 è l’anno di Bitches Brew di Miles Davis, di John Barleycorn dei Traffic e di Layla ma è anche l’anno di un album a torto considerato minore come Curtis di Curtis Mayfield, un artista che ha lasciato traccia in un numero incredibile di artisti rock (la sua Gypsy Woman è stata cantata un po’ da tutti).
Protagonista della scena musicale di Chicago dalla fine degli anni cinquanta come elemento di punta- assieme a Jerry Butler-del gruppo vocale degli Impressions, Curtis Mayfield entra con Curtis nella seconda fase della sua avventura artistica e imprime al soul scelte rivoluzionarie. Il suo tipico falsetto e la sua chitarra pizzicata diventano il veicolo di un soul politico che abbraccia temi e problematiche sociali, razziali e sessuali, sullo sfondo di un’ America attraversata da una profonda crisi ma anche arricchita da fermenti di rinnovamento ideale.
L’impegno artigianale e la fiducia verso la propria musica spinge Mayfield a fondare una propria etichetta discografica, la Curtom, con cui pubblica il suo primo disco solista. La portata innovativa del disco è un soul urbano ritmico e trascinante, di scrittura nuova e matura, che si apre ad arrangiamenti e accompagnamenti strumentali di grande ricercatezza, ad interpretazioni grintose e sensuali in cui ballate romantiche si alternano a momenti di più rabbiosa consapevolezza politica e culturale. Epica è Move On Up, un inno di straordinario potere ritmico e altrettanto indimenticabili sono (Don’t Worry) If There’s a Hell Below We’re All Going To Go, The Other Side Of Town e Miss Black America, sincero omaggio quest’ultima alle giovani donne che si affacciano alla vita pubblica con orgoglio e senza timori reverenziali.
L’edizione rinnovata del 2000 della Rhino aggiunge alle otto tracce originarie nove bonus tracks tra cui i demo di Power To The People, Underground e Ghetto Child.
Nato a Chicago ma cresciuto nel ghetto nero di St.Louis, Donny Hathaway ha saputo ampliare con la sua versatilità, inquietudine ed ambizione i confini armonici ed espressivi della musica soul, forte di una voce ricca e flessibile, in grado di creare una particolare tensione aerea con acuti dal vibrato aperto e accorati passaggi introspettivi.
Scoperto da Curtis Mayfield, Hathaway compì un rapido tirocinio come arrangiatore e pianista di studio prima di approdare alla Atlantic e incidere nel 1970 Everything Is Everything, un album viscerale, emozionante e romantico. Un album che costituisce il trampolino di lancio verso una fulminante carriera corredata da singoli da classifica, diverse produzioni, ottimi dischi solisti, uno splendido Live del 1971 e diverse collaborazioni con Roberta Flack. Un’ avventura artistica interrotta bruscamente da una prematura morte nel 1978, causa un suicidio non del tutto chiaro all’Hotel Essex di New York mentre era in procinto di portare a termine un nuovo album con la Flack e la sua esistenza correva tranquilla.
L’avventuroso Everything is Everything contenenti le antemiche The Ghetto, solare ritratto della città nera e sorta di riflessione sulle “gioie della gente in un’area oppressa” e To Be Young, Gifted and Black di Nina Simone , introduce un soul-blues per molti versi simile a quello di Curtis, un flusso ritmico ed emozionale, vibrante di orgoglio nero e di sensibilità jazzistiche, dominato dal piano elettrico e dalle percussioni, con la chitarra di King Curtis che presenzia nella versione di I Believe To My Soul di Ray Charles.
Ma è l’epocale What’s Goin’ On di Marvn Gaye (consiglio l’edizione deluxe del 2001 in doppio cd) la vera rivoluzione in termini di soul, un disco che traccia un solco definitivo tra quello che c’era prima e quello che ci sarà poi e annuncia un radicale differenza con la precedente produzione della Motown. Un lavoro che influenzerà una generazione di artisti neri, a cominciare dal compagno di scuderia Stevie Wonder e che illuminerà anche molti autori e songwriters bianchi. Una sorta di concept album attorno ai temi dell’amore, della fratellanza, dell’ecologia e dell’infanzia, contrassegnato da un modo di cantare a ruota libera, seguendo un inarrestabile flusso interiore di conoscenza e spiritualità. What’s Goin’ On può considerarsi l’equivalente “nero” di Astral Weeks anche se, per la fede nella vita profusa dalle sue canzoni e per lo spirito che anima la musica, si sono sprecati accostamenti alle meditazioni di Miles Davis in A Love Supreme.
Ascoltare ancora oggi What’s Goin’On è ascoltare il suono di un miracolo, sia per le condizioni tribolate in cui è nato, con Marvin Gaye proveniente da due anni di depressione conseguenti alla prematura scomparsa della partner Tammi Terrell, sia per la rivoluzione in termini di suoni, liriche e arrangiamenti di cui è portatore. Un disco romantico e solare che irradia un amore per la vita incredibile anche se le considerazioni sui problemi sociali ed umani da cui parte sono tutt’altro che positive.
Marvin Gaye non fu il primo a indirizzarsi verso quell intreccio di vecchio soul e nuovi grooves, anni prima Isaac Hayes, soul-singer della scuderia Stax, si aveva stravolto il pop ultramelodico e in odore di country di Jimmy Webb secondo modalità a dir poco sconcertanti. Un classico brano da cantare sotto la doccia, che non superava i quattro minuti ovvero By The Time I Get To Phoenix veniva allungato fino a diciotto minuti e quaranta secondi in una sequenza di parlato, tensione, violini e arrangiamenti tale da stravolgere la connotazione originaria. Era il 1969 e il disco si intitolava Hot Buttered Soul.

(1 - continua)

sabato 5 dicembre 2009

Get Yer-Ya’s Out! The Rolling Stones in Concert


NEW YORK, Madison Square Garden, 27 e 28 novembre 1969. La prima volta che usarono per i Rolling Stones l’appellativo di the greatest rock n’roll band in the world fu nel 1969 quando il presentatore Sam Cutler introdusse il concerto di Fort Collins in Colorado, prima data di uno straordinario tour americano che li vide suonare nelle maggiori città del paese registrando un successo senza precedenti. Il ritorno in America dopo tre anni di assenza aveva spinto gli Stones su quella strada di successo, genio, calcolo, lungimiranza, bravura, dedizione, perdizione e decadenza che li avrebbe accompagnati per quasi tutti gli anni ’70 creando un mito difficile da estirpare. Concerti quelli americani del 1969 che imposero una band del tutto rinnovata nello spirito e nel sound, conscia delle potenzialità che il nuovo chitarrista Mick Taylor poteva offrire in termini di blues ed ormai in grado di maneggiare la materia rock con una intensità e perfezione mai raggiunta prima, concerti che per la prima volta videro il pubblico ascoltare attentamente quello che avveniva sul palco senza sovrastare, come succedeva solo qualche anno prima, con le urla e gli isterismi il canto ed il suono degli strumenti.
Nello stesso 1969 vennero pubblicati il singolo di successo Honky Tonk Woman e l’album Let It Bleed, due lavori con cui gli Stones rimarcavano la loro svolta “americana” ma il fatto terribile, quello che contribuì ad alimentare l’immagine satanica del gruppo, fu il disastro di Altamont del 6 dicembre, un altro free concert messo in piedi in maniera del tutto inadeguata da Jagger e soci per placare le critiche dei media americani che li accusavano di essere responsabili della lievitazione dei prezzi dei biglietti dei concerti rock. Un megafestival che nelle intenzioni doveva essere la Woodstock della west-coast ma che il brutale assassinio di uno spettatore da parte del servizio d’ordine degli Hell’s Angels trasformò nell’epilogo degli anni sessanta e dell’utopia hippie.
Quando gli Stones si esibirono al Madison Square Garden di New York, il 27 e 28 novembre, Altamont non era ancora successo e quelli furono i più grandi show che il gruppo avesse mai realizzato. Il tour era partito il 7 novembre da Fort Collins nel Colorado e nel giro di un mese toccò Los Angeles, Oakland, San Diego, Phoenix, Dallas, Auburn, Champagne, Chicago, Detroit, Philadelphia, Baltimora, New York, Boston, West Palm Beach per un totale di diciassette date e ventitre concerti. Quando gli Stones arrivarono a New York l’eccitazione era alle stelle.
Era la prima volta che gli Stones si esibivano nel tempio del Madison Square Garden, furono quattro show (due per giorno) sferzanti, mirabolanti e pieni di energia, che a detta di molti furono quanto di meglio e di più forte si era visto fino allora nel rock. Si pensa che almeno 55mila newyorchesi (un record per l’epoca) siano accorsi a vederli, il New Yorker scrisse I Rolling Stones hanno offerto un’esibizione musicale ed insieme teatrale che non ha uguali nella nostra cultura.
Lester Bangs sul numero di Rolling Stone del 12 novembre 1970 fu ancora più netto: il miglior concerto rock che sia mai stato pubblicato su disco.
L’anno dopo la London/Decca pubblicò quel concerto nel disco Get Yer-Ya’s Out! –The Rolling Stones in Concert forse costretta dalle vendite del bootleg Live Than You’ll Ever Be che riportava con ottima qualità audio la registrazione dello show di qualche giorno prima, il 9 novembre 1969 all’Oakland Coliseum. Dieci le tracce riportate dal live ufficiale, conosciuto dai fans del gruppo come il disco dell’asinello per via della copertina, troppo poche per testimoniare di un evento così importante e deflagrante.
È di questi giorni la pubblicazione del 40th Anniversary Deluxe Box Set di Get Yer-Ya’s Out! un box che ridà lustro a quel concerto e sopperisce all’estrema stringatezza dell’originale. Per la prima volta un disco degli Stones è ripubblicato con una ricchezza di aggiunte ed una cura che appagano gli appassionati contribuendo anche a fare memoria storica oltre che musicale di un evento e di un periodo. Adesso c’è un corposo ed elegante box che include l’intero disco originario prodotto dal maestro Glyn Johns potenziato da un ulteriore CD di 5 brani estratti dagli stessi concerti, più un altro CD riportante le performance dei “supporter” B.B King ed Ike & Tina Turner oltre ad un suggestivo DVD con le sequenze di Albert Maysles che propone gli estratti dei concerti newyorchesi e le riprese di quel tour. Il tutto corredato da un approfondito booklet di una cinquantina di pagine scritto e fotografato da Ethan Russell in cui si racconta quella avventura oltre a riportare la storica recensione di Lester Bangs. Infine c’è la locandina in scala ridotta della tournee ed un codice per accedere al downloading di I’m Free (live) per Guitar Hero5.
Una operazione degna di quel concerto che da una parte permette di rivivere lo show del Madison Square Garden nella incandescente sequenza del disco originario con una qualità audio eccellente e dall’altra aggiunge cinque chicche prima sparse su bootleg ormai introvabili come lo strepitoso country-blues acustico di Prodigal Son, l’altrettanto acustica You Gotta Move di Fred McDowell che sarebbe stata pubblicata solo nel 1971 su Sticky Fingers e le elettriche Under My Thumb, I’m Free e Satisfaction, versione questa da cardiopalma, più lunga del solito, eccitatissima, inspiegabilmente omessa nell’originale disco del 1970.

Se questi sono gli Stones del ’69 ovvero una (se non la) annata migliore della loro lunga avventura live, non sfigurano nemmeno gli show di B.B King ed Ike & Tina Turner che riempiono il terzo CD. Elegante ed appassionato nello stesso tempo, B.B King infila alcuni classici del proprio repertorio, tra cui una swingata versione di Everyday I Have The Blues, tenendosi però alla larga dalla fredda compostezza e dal manierismo delle esibizioni che verranno. In cattedra c’è la sua Gibson, il suo vocione è una bevanda calda nel gelo di una notte invernale, la band è stellare ed il set all’insegna di un blues fluido e avvolgente. Torrido e grondante di erotismo il set di Ike&Tina Turner. E’ sufficiente sentirla senza vederla per capire quanto pathos ci sia nella performance di Tina la tigre, un autentico animale da palcoscenico che l’allora marito e tentatore Ike spinge verso un R&B estremo e focoso, con momenti di incredibile intensità come nella versione di I’ve Been Loving You Too Long di Otis Redding dove nel gioco a chiamata e risposta tra Tina ed Ike sembra di essere in una seduta di sesso. Poi, con soli sei brani Ike & Tina Turner passano in rassegna la storia del rock e del R&B infilando lo Steve Winwood di Gimme Some Loving con la Dusty Springfield di Son Of A Preacher Man, l’Arthur Conley di Sweet Soul Music con i Creedence di Proud Mary, i Beatles di Come Together con l’Wilson Pickett di Land Of A Thousand Dances.

Il DVD è invece opera del regista Albert Maysles, lo stesso del film Gimme Shelter, che aveva filmato l’intero tour del 1969. E’ possibile quindi bearsi di una bella sequenza di immagini tra cui l’affollato backstage del Madison con Keith Richards e Mick Taylor che fraternizzano con Jimi Hendrix e “assaggiano” le chitarre, una scatenata e coinvolta Janis Joplin che balla sulle note di Satisfaction e le esecuzioni acustiche a due (Richards e Jagger seduti) di Prodigal Son e You Gotta Move e quelle elettriche di tutta la band di Under My Thumb, I’m Free e Satisfaction. Uno spaccato eloquente della contagiosa atmosfera del Madison Square Garden.
Completano il quadro le buffe riprese su una deserta autostrada inglese con il fotografo David Bailey, un infreddolito Jagger e un Charlie Watts vestito da guerriero medioevale impegnati nella realizzazione della celebre copertina dell’asinello di Get Yer Ya-Ya’s Out!. Copertina che sostituì quella originaria e di cui il booklet ci racconta l’intera storia. Chiude il DVD le immagini degli Stones che scherzano con i Grateful Dead a San Francisco prima di volare con l’elicottero ad Altamont.
Senza ombra di dubbio questa 40th Anniversary Deluxe Box Set di Get Yer-Ya’s Out! si candida ad essere la ristampa dell’anno festeggiando degnamente l’anno in cui The Rolling Stones divennero the greatest rock n’roll band in the world.

Mauro Zambellini Dicembre 2009