martedì 20 gennaio 2009

Bruce Springsteen > Working On A Dream


Pure Pop for Now People? Non proprio ma quasi. Il nuovo disco di Springsteen Working On A Dream a detta dello stesso autore nasce dalla eccitazione per il ritorno delle sonorità della produzione pop e per l’energia espressa dalla band nel recente tour. Paragonato alla sua più classica produzione, è un disco eccentrico e diverso in quanto non sono le chitarre ed il romanticismo da blue-collar a condurre le danze ma uno stravagante melting di arrangiamenti, archi, di mescolanze sonore, di idee anche un po’ confuse volendo, di elaborazioni, di intro e outro, come se le canzoni fossero colonne sonore di piccoli film e anche se la E Street Band si sente più che in Magic il nuovo lavoro è sostanzialmente frutto dell’amore che Springsteen ha nei confronti del pop californiano e dei sixties. I testi sembrano più che altro incentrati sulla vita quotidiana anche se per ora non è possibile approfondirli a fondo ma in generale Working On A Dream è un bel disco di pop, anche coraggioso nel suo insistere su una certa idea di pop (che non è la schifezza che si sente oggi), con tante citazioni di Beach Boys, Roy Orbison, Dion, Brian Wilson, Mama’s and Papa’s, Kinks, Byrds e con un occhio di riguardo all’ appeal che possedevamo le canzoni dei sixties. Un disco che sale ascolto dopo ascolto, come se lavorare attorno ad un sogno necessiti tempo e pazienza e l’artista possa finalmente esprimersi svincolato da quelle catene che lo volevano a tutti costi profeta con una chitarra al collo ed una gang al fianco.
Qui è il pop nella sue leggerezza, nella sua estemporanea fruibilità a garantire emozioni come quelle scatenate dagli otto minuti di Outlaw Pete, la canzone più ambiziosa e tortuosa dell’ intero album, un saliscendi di emozioni e orchestrazioni spectoriane con pianoforte, organo, archi ed un rallenty che evoca il C’era una Volta il West di Morricone. Ci pensa My Lucky Day a smorzare l’enfasi, titolo che assieme a This Life, Life Itself, Good Eye e Tomorrow Never Knows costituisce il lotto di partenza su cui è stato costruito tutto l’ album. E’ una normale canzone di Springsteen sulla scia di My Love Will Not Let You Down dove anche Clemons fa la sua parte. Di Working On A Dream conosciamo ormai abbastanza e pur risaputa nella sua cantilena buonista a furia di risentirla sembra quasi bella, basta comunque il fatto di aver contribuito a far eleggere Obama per non contestarla più di quel tanto. Discorso diverso per il pop da discount di Queen Of The Supermarket che nasce sul ricordo della leggiadra Girls In Their Summer Clothes nel senso che è come se Bruce fosse tornato ragazzino e si fosse trovato nel più grande magazzino di riff, accordi, strofe e ritornelli e lo abbia saccheggiato pensando poi di mettere insieme tutto avendo in testa le melodie di Brian Wilson. Muscoli invece, quelli del rocker-Bruce in What Love Can Do, tre minuti giusti giusti di rock grezzo e duro, con la voce e la chitarra acustica che si interpongono sopra il beat secco della batteria. Potrebbe essere il John Mellencamp di Dance Naked. Puro e semplice rock n’roll, uno dei miei brani preferiti. 
Ancora sixties mood in This Life, un connubio di Kinks, Jimmy Webb, Mama’s and Papa’s, John Phillips con in più l’affondo di sax di Clemons e la dodici corde di Lofgren. Di natura diversa Good Eye altri tre minuti di echi distorti, voce filtrata ed un’ armonica lancinante. Sembra una canzone cresciuta attorno alla versione di Reason To Believe del Devils and Dust Tour ed è sorella di A Night With Jersey Devil (bonus track nella versione deluxe del disco con tanto di dvd). Un blues da juke joint, rauco e sporco come nelle registrazioni della Fat Possum.
L’eco di una lap-steel, l’aria serena del country ed un violino pieno di nostalgia: Tomorrow Never Knows, titolo rubato ai Beatles di Revolver sembra la E-Street Band che imita la Seeger Sessions Band. Atmosfere cupe, voce bassa e gran lavoro di tastiere invece in Life Itself che naviga di traverso col grigiore di un cielo che non promette niente di buono. 
Kingdom Of Days al primo ascolto sembra di una banalità sconcertante, potrei sbagliarmi ma qui l’enfasi degli arrangiamenti raggiunge livelli insopportabili, meglio il pop da British Invasion di Surprise, Surprise dove si scorgono i Kinks (ma anche i Byrds) e le chitarre lasciano spazio ad un sing-along che si sviluppa attorno ad un ritornello felicemente ossessivo. 
Il finale è per le ballate, la prima, The Last Carnival, si muove nella zona folkie di Devils and Dust, la seconda, The Wrestler chiude il disco con stampato addosso la malinconia del volto malconcio di Mickey Rourke nel film omonimo. Non è un capolavoro Working On A Dream ma è un brillante e serio disco di pop, più coerente di Magic e con diverse novità (che non tutti i fans apprezzeranno) rispetto al clichè rock springsteeniano. Ma, sono sicuro, lo ascolteremo parecchio. 
 
Mauro Zambellini

domenica 4 gennaio 2009

The End Of The Year - 2008


Tralasciando  l’immenso Bootleg Series Vol.8 di Dylan altrimenti conosciuto come Tell Tale Signs che ho acquistato nella versione doppia per via del prezzo poi diventato triplo grazie alla rimasterizzazione di Marco Denti ( ed il terzo dischetto vale e come), una sorgente dalle emozioni continue ed infinite, è il lavoro a firma Mudcrutch l’avvenimento rock dell’anno per chi scrive. Tom Petty con la sua vecchia band ha recuperato un sound che con gli Heartbreakers non gli riusciva più, un sound urgente, diretto, istintivo, per nulla perfetto ma del tutto vitale che racchiude tutta l’essenza del grande rock anni settanta ma che sa andare oltre, riesumando scampoli di fifties  nella High School Confidential contenuta nell’Ep Live appena pubblicato,  riossigenando il pop-folk-rock dei Byrds e dei Flying Burrito Bros. con cimeli quali Lover Of The Bayou e Six Days On The Road ed ergendo un monumento come Crystal River, impedibile la versione a 15 minuti dell’Ep Live, dove rock n’roll, blues, swamp, psichedelia, improvvisazioni, chitarre, Hammond, liriche e dolente voce del sud concorrono ad offrire una esaltante pagina di quello che il rock deve essere. 

Naturalmente le ristampe o gli archivi degni di nota del 2008 non si esauriscono con Dylan perché Pacific Ocean Blue del beach boy Dennis Wilson è un disco strano, intrigante, misterioso, caduco di presagi sinistri e di improvvise esplosioni di bellezza, un disco decadente anche se qui la decadenza ha i colori blue dell’oceano e l’aria rilassata della Southern California quindi una cosa assolutamente inusuale, da ascoltare senza pregiudizi anche per chi non sopporta gli arrangiamenti orchestrali. 

Una ristampa è anche l’edizione deluxe di Strangers Almanac degli Whiskeytown, un’opera di roots-rock  a molti sfuggita al tempo (1997) che segna l’apice della scena alternative country degli anni novanta con un concentrato di puro rock stradaiolo e senza il qual disco non sarebbe nato un controverso genio della canzone d’autore  qual’è Ryan Adams, il cui attuale, discreto, Cardinology scompare rispetto alla grandezza di  Strangers Almanac.

Per chi frequenta il soul, ma qui oltre all’anima c’è il cuore, l’orgoglio, la fierezza, la passione e la coscienza, consiglio vivamente di acquistare l’elegante box con tre cd ed un dvd  intitolato To Be Free ovvero The Nina Simone Story. Basta la versione del brano di Dylan  Just Like Tom Thomb’s Blues per capire che qui si ha a che fare con una materia celestiale ma le delizie non finiscono qui perché tra versioni e originali To Be Free apre le porte del paradiso anche a noi peccatori. 

Dagli archivi arriva anche Live At The BBC di Paul Weller, la storia l’ho già raccontata in Beat un po’ di settimane fa (cercatelo nel blog), invece per quanto riguarda i live non c’è bisogno che aggiunga nulla riguardo a Shine A Light degli Stones, nel cui dvd edito dalla Real Cinema della Feltrinelli c’è un testo, Il Tempo è Dalla Nostra Parte (45 anni coi Rolling Stones) scritto dal sottoscritto che consiglio a chi voglia sapere i su e giù artistici delle Pietre senza finire nei gossip. A parte l’auto-citazione  consiglio il potentissimo e springsteeniano Joe Ely Live Chicago 1987, uno show devastante, nella cui band brillavano il chitarrista David Grissom, il migliore avuto da Ely ed il sassofonista degli Stones Bobby Keys. 

Non dimenticatevi di passare poi dal Mercury Lounge nella Lower East Side di New York per vedere all’opera Willie Nile Live From The Streets Of New York ovvero un concentrato di tagliente rock urbano con una band tirata da tre chitarre in assetto di guerra. Per il piccolo rock-writer di Vagabond Moon la celebrazione per una vita dedicata al sound della Grande Mela. Chi ama Springsteen, Lou Reed, David Johansen, i Clash e gli Who troverà pane per i propri denti.

Buono senza essere eccezionale nel senso che manca qualche canzone all’altezza dei passati fasti anche se il sound esala sulfurei aromi di Exile On Main Street è Warpaint! dei Black Crowes e premio come miglior album di americana  dell’anno Brighter Than Creation’s Dark dei Drive By Truckers, che a mio modesto parere  possono essere considerati come i successori degli Whiskeytown con un tasso rollingstoniano e sudista in più.  In questo ambito segnalo l’arrivo di una giovane band di blue collar rock, genere che con la proletarizzazione indotta dalla crisi economica vivrà una stagione di revival, ovvero i Gaslight Anthem. Il loro The ’59 Sound è duro, energico, incalzante, suona un po’ irlandese alla maniera dei Black 47 ma ha la fuliggine e la voglia di riscatto delle periferie industriali americani. Da tenere sotto controllo anche se ancora a corto di memorabili canzoni.

Lo hanno messo tutti, specialmente nelle riviste specializzate estere e lo metto anch’io,  più per la freschezza e l’originalità e perché dal vivo loro mi sono proprio piaciuti per il candore e l’informalità con cui affrontano show e pubblico. Il disco dei Fleet Foxes  è un originale cocktail di cori alla beach boys,  musica gregoriana, folk e rock underground che farebbe tanto bene alle nuove generazioni perse tra Kaiser Chiefs, Killers e altre chincaglierie di poco prezzo. 

Della categoria giovani da seguire sono anche gli Okkervill River che pivelli non lo sono più da un pezzo e che già al tempo di Black Sheep Boy mi avevano incuriosito per il loro oscuro charme ma che con gli ultimi due dischi hanno proprio fatto il botto unendo il pop con un folk-rock introverso e notturno, chitarre acustiche ed elettriche, melodie che sembrano uscite da un vecchio palazzo vittoriano, un tono vocale (quello di Will Scheff) che mi ricorda Ray Davies dei Kinks e qualche eccentrica entrata di tromba. Sono sghembi nelle melodie ma affascinanti, per nulla texani come invece dicono le loro carte d’identità, sembrano di Boston o di Dublino ma poi nel penultimo album recuperano un classico portato al successo dai californiani Beach Boys (Sloop John B) celandolo sotto mentite spoglie. Il disco di quest’anno si intitola The Stand Ins, provate a sentirlo non ve ne pentirete. Ho preferito loro, che facevano da supporter, allo show di un mese fa ai Magazzini Generali quando in cartello c’erano i martellanti e muscolosi Black Keys.

Blue mi ha accusato di essere in un periodo di innamoramento ma la verità è che la Gabe Dixon Band ha veramente una dimestichezza con le melodie da grande storia d’amore. Nel loro omonimo disco non ci sono chitarre che fumano il born to run e nemmeno gesti rudi da rock di  rabbia, il clima è rilassato e mite, siamo in Georgia d’altra parte, pesche e magnolie si alternano a campi e distese verdi e il pianoforte conduce una danza dolce ma non zuccherosa che  con Disappear e All Will Be Well fa innamorare anche un orco. Gabe Dixon è un grande autore di ballate e piuttosto che spendere i soldi per l’ultimo disco di Jackson Browne rivolgetevi a lui se volete insonorizzarvi una mattinata calma, sorridente e luminosa. 

Nessuna sorpresa con i Counting Crows, c’è chi li odia e chi li ama. Io faccio parte della seconda schiera e Saturday Nights, Sunday Mornings è un disco che come suggerisce il titolo alterna melodie uggiose da mattino newyorchese pieno di pioggia e sciabolate chitarristiche in odore di Pearl Jam che fanno festa il sabato sera con alcol e amici.

Mi rimane da dire di Lucinda Williams la miglior rockeuse degli ultimi anni che dopo un capolavoro come West è riuscita a bissare le sue prestazioni con un album finalmente influenzato da una visione della vita meno pessimistica e dolorosa e da quelle vibrazioni che in genere hanno a che fare con le storie d’amore. Ben per lei e per noi, che non ci stufiamo di sentirla e possiamo così godere dei cambiamenti di Little Honey, ancora ballate dolenti di ambientazione sudista ma anche un sano rock n’roll che mette in fila Steve Earle, Rolling Stones e Ac/Dc di cui la rockeuse copre It’s A long Way To The Top.

Infine un cantautore che è pure ottimo chitarrista visto che è in pianta stabile come sideman nella band dell’ex Grateful Dead Phil Lesh, è Jackie Greene che ho scoperto dopo che mi aveva incuriosito una recensione di Gianfranco Callieri sul Buscadero. Ha un curriculum piuttosto lungo con alcuni buoni affondi nel senso del rock d’autore di matrice metropolitana, tra tutti il dylanesco  Sweet Somewhere Bound con quel notturno decor tipicamente newyorchese ma il disco che ha portato aria fresca nel mio appartamento è Giving Up The Ghost, suo lavoro del 2008. Esiste una sorta di preclusione da parte della critica nei suoi confronti e non capisco il motivo perché Greene ha talento e finezza e questo album suona arioso, fresco, con canzoni che si stampano addosso ed emanano una frizzante atmosfera californiana che in qualche episodio ricorda i Fleetwood Mac di Tusk. Insomma come andare a San Francisco,  Greene è di lì, stando seduti in poltrona e poi sognare.

Altri dischi mi hanno rallegrato senza emozionarmi più di quel tanto, finisco qui per non stancare ma ricordo che a livello di concerti visti quello di John Fogerty all’Alcatraz e di Springsteen e la E-Street Band a San Siro fanno parte di un altro mondo mentre una sonora delusione, pagata a prezzo da capogiro, l’ho avuta con Tom Waits agli Arcimboldi: una grande Tom Traubert Blues al piano, un paio di altre perle da lacrime agli occhi e poi una ripetizione di rantolii, sferragliare industriale (ottima comunque la band), suoni gutturali ed una solenne presa per il culo. Per chi cantava di battone, barboni, motel di quarta categoria e luridi asfalti del sabato sera suonare agli Arcomboldi per un pubblico d’elite ( con 105 e 145 euro a biglietto per forza di cose si seleziona il pubblico) non è una presa in giro?  Dov’è finito il poeta dei bassifondi, in un salotto della borghesia bene ? Al 2009 l’ardua risposta . Ciao e Buon Anno.

Mauro Zambellini