martedì 29 dicembre 2009

The End Of The Year 2009


Un buon anno il 2009 per il rock n’roll a cominciare dai concerti che si sono visti dalle nostre parti.

Straordinario quello della rinata Dave Matthews Band tenuto all’inizio di luglio a Lucca testimoniato ora dalla pubblicazione di un box di tre cd (Lucca) ed un Dvd (Londra) DMB 2009 Europe in verità un po’ caro (attorno alle 60 euro) ma superlativo in quanto a musica e virtuosismi.

Altro emozionante show quello inscenato da Wilco, gruppo di punta del recente rock americano arrivato al top della propria creatività, al Conservatorio di Milano davanti ad un pubblico in delirio. Un set furioso ed estatico che ha messo insieme avanguardia e songwriting, feedback e melodia, rock n’ roll e rumore, Beatles e Sonic Youth in quello che è sembrato il concerto più originale dell’attuale panorama internazionale del rock. Se siete a digiuno di Wilco o l’ultimo loro album non vi ha del tutto soddisfatti (nettamente migliore il precedette Sky Blue Sky) consiglio vivamente di rifarvi con il Dvd Ashes Of American Flags, una sorta di road movie costruito attorno ad un loro tour nella profonda provincia americana con tanto di landscapes, strade, ponti, ghostown, brevi interviste ed estratti di concerto. Un lavoro sublime e suggestivo che fonde musica con immagini degne di un regista come Wim Wenders.

Possente e lirico, sebbene in taluni frangenti della loro musica questi due aggettivi frizionano fino a stridere, il monumentale show che i Gov’t Mule hanno tenuto in novembre all’Alcatraz di Milano a supporto di un album, By A Thread che è tra i migliori e più “ascoltabili” della loro produzione in studio.

Chi lo aveva visto in azione nel 2008 aveva già brindato alla sue energia e brillantezza ma anche quest’anno John Fogerty, a dispetto di un disco un po’ scialbo, non ha deluso. L’ho visto nell’incantevole cornice palladiana di Piazzola del Brenta con una band sontuosa in cui spiccava il drumming potente dell’indemoniato Kenny Aronoff e devo ammettervi che in quanto a puro rock n’roll e a canzoni da cantare a squarciagola Fogerty non è secondo a nesuno. Mi è capitato di vederlo solo pochi giorni dopo quello di Springsteen a Udine e con tutto l’amore e la stima che nutro per il Boss quest’anno l’incontro è finito 2 a 1 per l’ex Creedence.
Springsteen quest’anno mi ha deluso un po’, forse l’ho visto troppe volte, forse il suo Working On A Dream non è quel sogno che tutti ci aspettavamo ma il suo show del 2009 mi è sembrato un po’ troppo karaoke pop-olare con poco rock n’roll e troppo sing along.

Magnifico il concerto agli Arcimboldi, luogo che continuo a reputare insulso per la mia idea popolare di rock in virtù anche di biglietti dal costo elitario, di Ry Cooder, figlio e Nick Lowe ma qui è come entrare da Tiffany per una signora amante del lusso. Raffinato e colto, romantico e zeppo di storia oltre che di umore, il loro show è stato di una prelibatezza senza eguali, haute cousine per grandi intenditori, delusi solo dalla scarsezza delle porzioni. E’ durato si e no un’oretta, per sessanta e passa euro mi è sembrato un po’ pochino, anche in tempo di crisi.

Sono andato perché mi hanno offerto il biglietto, non sono mai stato un suo grande fan ma il concerto di Jackson Browne a Milano è stato davvero bello. Una band coi fiocchi, uno show diviso in due parti, con un po’ di roba nuova e tanti brani dell’antico e glorioso passato west-coast, canzoni che non sai se ridere dalla gioia quando li senti o piangere dai ricordi, ex hippies ora liberi professionisti dai capelli grigi e belle signore dal fisico conservato, tanta nostalgia di California ed il vento leggero di Running On Empty. Una sorpresa, a tutti gli effetti, un concerto caldo e positivo, senza retorica ma orgoglioso. Un brother Jackson ritrovato ed in forma.

Passiamo ai dischi, oops ai Cd. Tra le cose migliori il nuovo Ian Hunter, Man Overboard, commovente con quelle ballate che emanano fuliggine londinese e spirito battagliero (Arms and Legs è la ballata dell’anno) e sferzante quando mette in pista il sound amarognolo del rock inglese dei seventies cresciuto nei club e nei pub. E’ un disco entusiasmante ed emozionante, onesto e sincero Man Overboard, il magnifico lavoro di un grande vecchio del rock. Hunter ha settanta anni e quest’anno se li è festeggiati con una applaudita reunion dei Mott The Hoople e con una bella ristampa di You’re Never Alone with a Schizophrenic, disco newyorchese del 1979 dove si trovava in compagnia di Mick Ronson e di alcuni della E-Streeters per quello che è uno dei must del suo catalogo. All’originale disco hanno aggiunto un Cd tutto dal vivo del genere Welcome To The Club ovvero roba pesante, da maneggiare con cura.

Un altro vecchio che non ha fallito nemmeno quest’anno è il caro vecchio Bob. Il suo Together Trough Life è intenso e romantico, sporcato di fisarmoniche messicane, immediatezza folk e chitarre blues, un disco dolente e quasi sgangherato come i suoi attuali concerti, un lavoro di strada da parte di un artista che è l’essenza intrinseca del rock. La prima decade del nuovo secolo ha significato per Dylan una rinascita creativa, prima Love and Theft, poi Modern Times ed il memorabile Tell Tale Signs delle Bootleg Series, adesso Together Trough Life, i dylanologi ufficiali non condividono ma i rockisti si leccano dita e baffi. Chi l’ha detto che non si poteva suonare rock n’roll dopo i trentanni? Guardate Hunter e Dylan e poi ditemi se quando si è giovani non si è inclini alle cazzate.

Della serie altri vecchi crescono ecco Eric Clapton, “giovane” a seconda dei giorni, e Steve Winwood che chi l’ha visto in concerto a Milano ne ha detto un gran bene. Si sono riuniti al Madison Square Garden dopo 40 anni e hanno fatto uscire un doppio live che ha lo stile dei double live album degli anni ’70. Rock potente, suonato con maestria incrociando blues, pop, R&B e psichedelia con titoli che sono di per sé una leggenda. I Cream, lo Spencer Davis Group, i Blind Faith, Hendrix, Ray Charles, Muddy Waters, i Traffic e J.J Cale tutti in un colpo solo. Il classico dei classici, come bere uno champenoise superiore del Franciacorta.

Visto che di live abbiamo parlato all’inizio non vorrei dimenticarmi della The Live Anthology di Tom Petty con gli Heartbreakers. Quattro Cd nell’ edizione economica, cinque in quella deluxe e the last great american band vi porta dove i vostri sogni vorrebbero essere ovvero su quelle strade d’America che dalla California dei Byrds arrivano alla Florida dello swamp-rock, dal punk di Century City alla Ballad of Easy Rider, dai Fleetwood Mac importati di Oh Well a Dylan, dai Southern Accents a BoDiddley, dalla pioggia della Louisiana a Dreamville, da Green Onions ad American Girl. Come scrivere una storia del rock americano usando chitarre, batteria ed Hammond al posto della macchina scrivere, l’equivalente rock n’roll di On The Road di Jack Kerouac.

Non è finita. In quanto ad american music i Black Crowes dopo aver giocato per una decina d’anni con la british invasion di Stones, Free, Led Zeppelin e Faces adesso hanno riscoperto The Band e le montagne di Woodstock ovvero la genesi in chiave rock della roots music. Before The Frost… Until The Freeze è il loro disco più pastorale ed invernale ma è caldo come una serata con amici attorno ad un camino acceso. Magnoni di lana, tappeti sotto i piedi, una buona bottiglia di vino rosso e quella profumata marijuana che ha porta l’amico americano di nome Chris.

Dei loro amici Muli abbiamo già detto sopra ma se Warren Haynes è da iscrivere come il vero guitar hero dei giorni nostri, anzi come qualcuno ha detto il titano della Gibson, non va dimenticato il suo compare Derek Trucks che con lui divide le corde nell’ultima edizione della Allman Bros. Band. Il suo nuovo Cd, Almost Free non è sperimentale come il precedente Songlines ma mischia soul, jazz e blues con un tocco di classe soprafino, è originale ed elegante, non assomiglia a nessun altro disco del genere e suona fresco come pochi. Sentire per credere, si apre con Down In The Flood pescata dai Basement Tapes di Dylan ma rifatta ex novo e poi va avanti tra illuminazioni soul (Sweet Insipration) e ventate di rock/blues che confinano col jazz e con l’etno.

Mi rimane da segnalarvi il piccolo e coriaceo Willie Nile che continua a cantare delle strade di New York come fossimo nel 1980. Il suo House of A Thousand Guitars ha indurito la vena ritrovata del precedente i Streets Of New York incattivendo la sua poesia con un salutare sound di Fender (Andy York); i Lucero che con 1372 Overton Park dimostrano di aver lasciato alle spalle l’alternative country più ortodosso per approdare ad un rock memphisiano dove si scorgono ombre di Big Star, Replacements e e dei Del Fuegos di Smoking In The Fields e i Drive By Truckers, figli anomali di un sud lacerato, che con Live From Austin rivelano di essere più vicini a Neil Young e i Crazy Horse che ai Lynyrd Skynyrd.

Last but not least the italians ovvero il terreno minato per ogni recensore che si rispetti. I Cheap Wine a detta di tutti, anche del sottoscritto, hanno fatto il loro disco più maturo, variegato, profondo (nei testi e nei suoni), originale e suonato meglio (Spirits) confermandosi una band con i controcoglioni, ottimi musicisti e validi autori ormai degni di una platea internazionale.
Una menzione anche ai roots-rockers dell’Oltrepò Pavese ovvero i Mandolin Brothers gruppo che spumeggia mexican flavours, blues pachuco, dixie chicken e diari di viaggio messi a canzone. Il loro 30 Lives! è il party record del San Silvestro della Bassa.

Purtroppo il 2009 è stato l’anno della scomparsa del gitano delle emozioni Willy DeVille, artista di grandezza inestimabile ignorato dal mondo dei pusillanimi sia in vita che in morte, a cui va il mio sentito e addolorato ricordo.
Buon anno a tutti, anzi no, solo a quella parte d’Italia per cui tolleranza, solidarietà, cultura e giustizia sociale significano ancora qualcosa. Gli altri vadano a quel paese che, purtroppo, oggi è il loro.

Mauro Zambellini

domenica 20 dicembre 2009

Gypsy Soul #1


A margine dei primi anni settanta alcuni songwriters furono influenzati dalla musica afroamericana, a partire dal R&B per arrivare al jazz, quasi in netto contrasto con la tensione folkie dei loro rispettivi colleghi degli anni sessanta, in primis Bob Dylan.
Nacquero così dischi come Moondance di Van Morrison, The Wild and The Innocent di Springsteen, Alias I di Dirk Hamilton, The Heart Of Saturday Night di Tom Waits, Solid Air di John Martyn.

Ad un certo punto all’inizio degli anni settanta, dopo che i bagliori dei sixties si erano spenti o avevano perso di luminosità, ci furono artisti e songwriters che rivolsero la loro attenzione verso la musica nera, sentendo l’esigenza di rinfrancare la loro musica e le loro composizioni con il soul, il jazz, il R&B, in nome di una maggiore libertà espressiva. Questi autori e cantanti, alcuni dei quali provenivano dal movimento folk e rock degli anni sessanta, trovarono naturale contaminare la loro ispirazione coi suoni della musica afroamericana , non tanto per emulare i loro colleghi di colore o per appropriarsi di una tradizione come era invece successo col british blues ma piuttosto per adeguare la loro creatività ai fremiti libertari di un epoca che stava vivendo un particolare momento culturale e sociale.
La psichedelia aveva già offerto ampi margini di libertà ad esplorazioni di vario tipo ma questa costituiva terreno di battuta soprattutto per le band e i gruppi che facevano della sperimentazione strumentale la loro innovazione ma per i solisti e i songwriters legati alla forma canzone il campo era più ristretto perché c’erano tempi e metriche da rispettare. Questo nonostante che Like a Rolling Stone di Dylan avesse affermato la rottura di certe barriere e il superamento dei tre minuti della canzone folk e della sequenza strofa/ritornello/strofa della canzone pop.
Contò molto in questa evoluzione stilistica una generale liberazione delle coscienze , quell’ autoconfessarsi in un pubblico che aveva investito vari ambiti del movimento giovanile e che si tradusse nel rock in un modo di cantare e scrivere molti simile ad un letterario stream of consciousness. L’esempio più calzante è offerto da Astral Weeks nella musica bianca e What’s Goin’On in quella nera, archetipi di questo fiume di suoni, parole, silenzi e note in cui poesia e musica si confondono e si abbracciano.


Inner City Blues
Fu la musica afroamericana ad offrire ad autori come Van Morrison, Dirk Hamilton, Laura Nyro, la spregiudicatezza melodica e ritmica per evolvere a livello di scrittura e di interpretazione, liberando la propria creatività in composizioni lunghe ed elusive, fatte di silenzi e di improvvise impennate liriche, di ballate dai toni introspettivi, di rocamboleschi shuffle di soul, blues e jazz in cui ritmo e improvvisazione rispondevano ad una anarchia stilistica a volte difficile da maneggiare.
Quello che fino a poco tempo prima era stato un mondo a parte, con proprie città, proprie etichette, proprie classifiche ovvero la black music adesso irrompeva nei Cafè del Village, nei club del Sunset Boulevard e nei campus universitari. Fu importante il periodo, il passaggio tra i sessanta e i settanta, due epoche più che due decadi e alcuni dischi. Il 1970 è l’anno di Bitches Brew di Miles Davis, di John Barleycorn dei Traffic e di Layla ma è anche l’anno di un album a torto considerato minore come Curtis di Curtis Mayfield, un artista che ha lasciato traccia in un numero incredibile di artisti rock (la sua Gypsy Woman è stata cantata un po’ da tutti).
Protagonista della scena musicale di Chicago dalla fine degli anni cinquanta come elemento di punta- assieme a Jerry Butler-del gruppo vocale degli Impressions, Curtis Mayfield entra con Curtis nella seconda fase della sua avventura artistica e imprime al soul scelte rivoluzionarie. Il suo tipico falsetto e la sua chitarra pizzicata diventano il veicolo di un soul politico che abbraccia temi e problematiche sociali, razziali e sessuali, sullo sfondo di un’ America attraversata da una profonda crisi ma anche arricchita da fermenti di rinnovamento ideale.
L’impegno artigianale e la fiducia verso la propria musica spinge Mayfield a fondare una propria etichetta discografica, la Curtom, con cui pubblica il suo primo disco solista. La portata innovativa del disco è un soul urbano ritmico e trascinante, di scrittura nuova e matura, che si apre ad arrangiamenti e accompagnamenti strumentali di grande ricercatezza, ad interpretazioni grintose e sensuali in cui ballate romantiche si alternano a momenti di più rabbiosa consapevolezza politica e culturale. Epica è Move On Up, un inno di straordinario potere ritmico e altrettanto indimenticabili sono (Don’t Worry) If There’s a Hell Below We’re All Going To Go, The Other Side Of Town e Miss Black America, sincero omaggio quest’ultima alle giovani donne che si affacciano alla vita pubblica con orgoglio e senza timori reverenziali.
L’edizione rinnovata del 2000 della Rhino aggiunge alle otto tracce originarie nove bonus tracks tra cui i demo di Power To The People, Underground e Ghetto Child.
Nato a Chicago ma cresciuto nel ghetto nero di St.Louis, Donny Hathaway ha saputo ampliare con la sua versatilità, inquietudine ed ambizione i confini armonici ed espressivi della musica soul, forte di una voce ricca e flessibile, in grado di creare una particolare tensione aerea con acuti dal vibrato aperto e accorati passaggi introspettivi.
Scoperto da Curtis Mayfield, Hathaway compì un rapido tirocinio come arrangiatore e pianista di studio prima di approdare alla Atlantic e incidere nel 1970 Everything Is Everything, un album viscerale, emozionante e romantico. Un album che costituisce il trampolino di lancio verso una fulminante carriera corredata da singoli da classifica, diverse produzioni, ottimi dischi solisti, uno splendido Live del 1971 e diverse collaborazioni con Roberta Flack. Un’ avventura artistica interrotta bruscamente da una prematura morte nel 1978, causa un suicidio non del tutto chiaro all’Hotel Essex di New York mentre era in procinto di portare a termine un nuovo album con la Flack e la sua esistenza correva tranquilla.
L’avventuroso Everything is Everything contenenti le antemiche The Ghetto, solare ritratto della città nera e sorta di riflessione sulle “gioie della gente in un’area oppressa” e To Be Young, Gifted and Black di Nina Simone , introduce un soul-blues per molti versi simile a quello di Curtis, un flusso ritmico ed emozionale, vibrante di orgoglio nero e di sensibilità jazzistiche, dominato dal piano elettrico e dalle percussioni, con la chitarra di King Curtis che presenzia nella versione di I Believe To My Soul di Ray Charles.
Ma è l’epocale What’s Goin’ On di Marvn Gaye (consiglio l’edizione deluxe del 2001 in doppio cd) la vera rivoluzione in termini di soul, un disco che traccia un solco definitivo tra quello che c’era prima e quello che ci sarà poi e annuncia un radicale differenza con la precedente produzione della Motown. Un lavoro che influenzerà una generazione di artisti neri, a cominciare dal compagno di scuderia Stevie Wonder e che illuminerà anche molti autori e songwriters bianchi. Una sorta di concept album attorno ai temi dell’amore, della fratellanza, dell’ecologia e dell’infanzia, contrassegnato da un modo di cantare a ruota libera, seguendo un inarrestabile flusso interiore di conoscenza e spiritualità. What’s Goin’ On può considerarsi l’equivalente “nero” di Astral Weeks anche se, per la fede nella vita profusa dalle sue canzoni e per lo spirito che anima la musica, si sono sprecati accostamenti alle meditazioni di Miles Davis in A Love Supreme.
Ascoltare ancora oggi What’s Goin’On è ascoltare il suono di un miracolo, sia per le condizioni tribolate in cui è nato, con Marvin Gaye proveniente da due anni di depressione conseguenti alla prematura scomparsa della partner Tammi Terrell, sia per la rivoluzione in termini di suoni, liriche e arrangiamenti di cui è portatore. Un disco romantico e solare che irradia un amore per la vita incredibile anche se le considerazioni sui problemi sociali ed umani da cui parte sono tutt’altro che positive.
Marvin Gaye non fu il primo a indirizzarsi verso quell intreccio di vecchio soul e nuovi grooves, anni prima Isaac Hayes, soul-singer della scuderia Stax, si aveva stravolto il pop ultramelodico e in odore di country di Jimmy Webb secondo modalità a dir poco sconcertanti. Un classico brano da cantare sotto la doccia, che non superava i quattro minuti ovvero By The Time I Get To Phoenix veniva allungato fino a diciotto minuti e quaranta secondi in una sequenza di parlato, tensione, violini e arrangiamenti tale da stravolgere la connotazione originaria. Era il 1969 e il disco si intitolava Hot Buttered Soul.

(1 - continua)

sabato 5 dicembre 2009

Get Yer-Ya’s Out! The Rolling Stones in Concert


NEW YORK, Madison Square Garden, 27 e 28 novembre 1969. La prima volta che usarono per i Rolling Stones l’appellativo di the greatest rock n’roll band in the world fu nel 1969 quando il presentatore Sam Cutler introdusse il concerto di Fort Collins in Colorado, prima data di uno straordinario tour americano che li vide suonare nelle maggiori città del paese registrando un successo senza precedenti. Il ritorno in America dopo tre anni di assenza aveva spinto gli Stones su quella strada di successo, genio, calcolo, lungimiranza, bravura, dedizione, perdizione e decadenza che li avrebbe accompagnati per quasi tutti gli anni ’70 creando un mito difficile da estirpare. Concerti quelli americani del 1969 che imposero una band del tutto rinnovata nello spirito e nel sound, conscia delle potenzialità che il nuovo chitarrista Mick Taylor poteva offrire in termini di blues ed ormai in grado di maneggiare la materia rock con una intensità e perfezione mai raggiunta prima, concerti che per la prima volta videro il pubblico ascoltare attentamente quello che avveniva sul palco senza sovrastare, come succedeva solo qualche anno prima, con le urla e gli isterismi il canto ed il suono degli strumenti.
Nello stesso 1969 vennero pubblicati il singolo di successo Honky Tonk Woman e l’album Let It Bleed, due lavori con cui gli Stones rimarcavano la loro svolta “americana” ma il fatto terribile, quello che contribuì ad alimentare l’immagine satanica del gruppo, fu il disastro di Altamont del 6 dicembre, un altro free concert messo in piedi in maniera del tutto inadeguata da Jagger e soci per placare le critiche dei media americani che li accusavano di essere responsabili della lievitazione dei prezzi dei biglietti dei concerti rock. Un megafestival che nelle intenzioni doveva essere la Woodstock della west-coast ma che il brutale assassinio di uno spettatore da parte del servizio d’ordine degli Hell’s Angels trasformò nell’epilogo degli anni sessanta e dell’utopia hippie.
Quando gli Stones si esibirono al Madison Square Garden di New York, il 27 e 28 novembre, Altamont non era ancora successo e quelli furono i più grandi show che il gruppo avesse mai realizzato. Il tour era partito il 7 novembre da Fort Collins nel Colorado e nel giro di un mese toccò Los Angeles, Oakland, San Diego, Phoenix, Dallas, Auburn, Champagne, Chicago, Detroit, Philadelphia, Baltimora, New York, Boston, West Palm Beach per un totale di diciassette date e ventitre concerti. Quando gli Stones arrivarono a New York l’eccitazione era alle stelle.
Era la prima volta che gli Stones si esibivano nel tempio del Madison Square Garden, furono quattro show (due per giorno) sferzanti, mirabolanti e pieni di energia, che a detta di molti furono quanto di meglio e di più forte si era visto fino allora nel rock. Si pensa che almeno 55mila newyorchesi (un record per l’epoca) siano accorsi a vederli, il New Yorker scrisse I Rolling Stones hanno offerto un’esibizione musicale ed insieme teatrale che non ha uguali nella nostra cultura.
Lester Bangs sul numero di Rolling Stone del 12 novembre 1970 fu ancora più netto: il miglior concerto rock che sia mai stato pubblicato su disco.
L’anno dopo la London/Decca pubblicò quel concerto nel disco Get Yer-Ya’s Out! –The Rolling Stones in Concert forse costretta dalle vendite del bootleg Live Than You’ll Ever Be che riportava con ottima qualità audio la registrazione dello show di qualche giorno prima, il 9 novembre 1969 all’Oakland Coliseum. Dieci le tracce riportate dal live ufficiale, conosciuto dai fans del gruppo come il disco dell’asinello per via della copertina, troppo poche per testimoniare di un evento così importante e deflagrante.
È di questi giorni la pubblicazione del 40th Anniversary Deluxe Box Set di Get Yer-Ya’s Out! un box che ridà lustro a quel concerto e sopperisce all’estrema stringatezza dell’originale. Per la prima volta un disco degli Stones è ripubblicato con una ricchezza di aggiunte ed una cura che appagano gli appassionati contribuendo anche a fare memoria storica oltre che musicale di un evento e di un periodo. Adesso c’è un corposo ed elegante box che include l’intero disco originario prodotto dal maestro Glyn Johns potenziato da un ulteriore CD di 5 brani estratti dagli stessi concerti, più un altro CD riportante le performance dei “supporter” B.B King ed Ike & Tina Turner oltre ad un suggestivo DVD con le sequenze di Albert Maysles che propone gli estratti dei concerti newyorchesi e le riprese di quel tour. Il tutto corredato da un approfondito booklet di una cinquantina di pagine scritto e fotografato da Ethan Russell in cui si racconta quella avventura oltre a riportare la storica recensione di Lester Bangs. Infine c’è la locandina in scala ridotta della tournee ed un codice per accedere al downloading di I’m Free (live) per Guitar Hero5.
Una operazione degna di quel concerto che da una parte permette di rivivere lo show del Madison Square Garden nella incandescente sequenza del disco originario con una qualità audio eccellente e dall’altra aggiunge cinque chicche prima sparse su bootleg ormai introvabili come lo strepitoso country-blues acustico di Prodigal Son, l’altrettanto acustica You Gotta Move di Fred McDowell che sarebbe stata pubblicata solo nel 1971 su Sticky Fingers e le elettriche Under My Thumb, I’m Free e Satisfaction, versione questa da cardiopalma, più lunga del solito, eccitatissima, inspiegabilmente omessa nell’originale disco del 1970.

Se questi sono gli Stones del ’69 ovvero una (se non la) annata migliore della loro lunga avventura live, non sfigurano nemmeno gli show di B.B King ed Ike & Tina Turner che riempiono il terzo CD. Elegante ed appassionato nello stesso tempo, B.B King infila alcuni classici del proprio repertorio, tra cui una swingata versione di Everyday I Have The Blues, tenendosi però alla larga dalla fredda compostezza e dal manierismo delle esibizioni che verranno. In cattedra c’è la sua Gibson, il suo vocione è una bevanda calda nel gelo di una notte invernale, la band è stellare ed il set all’insegna di un blues fluido e avvolgente. Torrido e grondante di erotismo il set di Ike&Tina Turner. E’ sufficiente sentirla senza vederla per capire quanto pathos ci sia nella performance di Tina la tigre, un autentico animale da palcoscenico che l’allora marito e tentatore Ike spinge verso un R&B estremo e focoso, con momenti di incredibile intensità come nella versione di I’ve Been Loving You Too Long di Otis Redding dove nel gioco a chiamata e risposta tra Tina ed Ike sembra di essere in una seduta di sesso. Poi, con soli sei brani Ike & Tina Turner passano in rassegna la storia del rock e del R&B infilando lo Steve Winwood di Gimme Some Loving con la Dusty Springfield di Son Of A Preacher Man, l’Arthur Conley di Sweet Soul Music con i Creedence di Proud Mary, i Beatles di Come Together con l’Wilson Pickett di Land Of A Thousand Dances.

Il DVD è invece opera del regista Albert Maysles, lo stesso del film Gimme Shelter, che aveva filmato l’intero tour del 1969. E’ possibile quindi bearsi di una bella sequenza di immagini tra cui l’affollato backstage del Madison con Keith Richards e Mick Taylor che fraternizzano con Jimi Hendrix e “assaggiano” le chitarre, una scatenata e coinvolta Janis Joplin che balla sulle note di Satisfaction e le esecuzioni acustiche a due (Richards e Jagger seduti) di Prodigal Son e You Gotta Move e quelle elettriche di tutta la band di Under My Thumb, I’m Free e Satisfaction. Uno spaccato eloquente della contagiosa atmosfera del Madison Square Garden.
Completano il quadro le buffe riprese su una deserta autostrada inglese con il fotografo David Bailey, un infreddolito Jagger e un Charlie Watts vestito da guerriero medioevale impegnati nella realizzazione della celebre copertina dell’asinello di Get Yer Ya-Ya’s Out!. Copertina che sostituì quella originaria e di cui il booklet ci racconta l’intera storia. Chiude il DVD le immagini degli Stones che scherzano con i Grateful Dead a San Francisco prima di volare con l’elicottero ad Altamont.
Senza ombra di dubbio questa 40th Anniversary Deluxe Box Set di Get Yer-Ya’s Out! si candida ad essere la ristampa dell’anno festeggiando degnamente l’anno in cui The Rolling Stones divennero the greatest rock n’roll band in the world.

Mauro Zambellini Dicembre 2009

giovedì 26 novembre 2009

Gov't Mule Alcatraz Milano, 12 novembre 2009


È la seconda volta che i Muli suonano a Milano, la prima fu nell’aprile del 2005 , quest’anno il concerto è stato migliore, meno duro ma più trascinante, sapientemente dosato con pezzi del passato ed estratti del nuovo disco By A Thread. Blues, ballate, granitici hard-rock in odore di free, intermezzi jazz, psichedelia ed improvvisazioni hanno riempito uno show potente e muscoloso, forte e a tratti impegnativo ma mai ostico, seguito e salutato da un pubblico attento, caldo e preparato che ha tributato ai Muli applausi e ovazioni nonostante la lunghezza, tre ore e la scomodità di essere stipati ed in piedi. I Muli, instancabili, inesauribili e generosi come è nel loro stile, si sono confermati una band straordinaria in quell’ambito di jam rock/blues che nel passato ha visto primeggiare gli Allman e grazie a soluzioni tecniche e strumentali spesso ardite ed inconsuete hanno dimostrato di essersi costruito una terza via tra Allman e Dead, gruppi dei quali fra l’altro Haynes fa parte.
E’ lui il capobanda, il titano della Gibson, un chitarrista colossale, un mostro di bravura e conoscenza che ha nelle dita tutto il corso del Mississippi dal Delta a Chicago (pur non disdegnando divagazioni degne di un Coltrane) un autentico mattatore con la sei e la dodici corde, cantante aspro, sofferente, disperato ma in grado di infondere un calore straordinario. Accanto a lui un batterista altrettanto colossale, Matt Abts, capelli lunghi, barba incolta e canotta nera, un neandertheliano dei nostri tempi che picchia (e come picchia) senza quasi neanche muoversi, ottenendo un drumming che chiamare possente è un eufemismo ma ugualmente dinamico e pulsante. Completano la band un bassista, Jorgen Carlsson, che col suo funky riesce in parte a far dimenticare il compianto Allen Woody ed un tastierista, Danny Louis che con l’Hammond ed il Rhodes piano riempie gli spazi che gli altri tre indiavolati gli lasciano a disposizione creando comunque un magma di suoni che ha il merito di aver traghettato i Muli dall’heavy blues tipico dei power trio ad un sound più totale.
Lo show inizia con una slidata di Gibson, poi entra Abts a martello ed è subito Brighter Days, l’inferno si accende, i diavoli cominciano a ballare. Atmosfera sulfurea, suoni tellurici, sono i Muli duri e rocciosi di High & Mighty che presagiscono un concerto siderurgico. Invece Like Flies smussa gli spigoli ed introduce le classiche Grameface e Mule dove si rivedono i Muli jammare ed improvvisare, divagando e dilatando i tempi per poi ritornare sul tema base, evocando le fughe pirotecniche dei Dead. Si sentirà anche un accenno allungato di The Other One dei Grateful Dead.
Una prima cover arriva con When The Leeve Breaks presa dal quarto album dei Led Zeppelin visto la stima che il nostro nutre per quella band. Il brano, di cui ricordo una micidiale versione del compianto John Campbell, offre ad Haynes la possibilità di scivolare di slide come un provetto campione di slalom speciale.
Uno degli highlights del primo set è Blind Man In The Dark, teso, vorticoso e denso di atmosfera misteriosa, poi è la volta dei brani di By A Thread, salutato dalla platea non appena riconosce le note iniziali di Steppin Lightly. Nonostante la recente pubblicazione è già nelle orecchie di molti, così quando parte Broke Down In The Brazos ci si aspetta che dalle quinte esca Billy Gibson.
Dopo il break il concerto riparte con una memorabile Railroad Boy, il bellissimo traditional contenuto in By A Thread cantato in modo eroico da Haynes. Rispetto alla versione in studio ha un afflato meno “celtico” ma la dodici corde del leader risuona imperiale. Dallo stesso disco arriva la cupa Monday Morning Meltdown mentre Have Mercy On The Criminal è di Elton John anche se non sembra. Wandering Child col suo groove sincopato e le sue unghiate slide riporta i Muli sulla strada di Life Before Insanity il disco del 2000 che ha fornito tanti brani ai loro live set. Da quell’album esce pure la intensa e accorata Fallen Down prima che un estenuante monologo di batteria di Abts allenti la tensione dello show. Quando l’intera band rientra in scena il concerto si impenna e va verso l’apoteosi finale con i nervosi scatti chitarristici di Painted Silver Light e la solare Soulshine, venata da un ritmo vagamente reggae. L’encore è a sorpresa, Out of The Rain è una emozionante ballata di Tony Joe White interpretata da Etta James e Talk To My Baby un torrido rock/blues di Elmore James infiammata dai brucianti assoli di Haynes.
Concerto tosto e Muli meglio dei cavalli.

Mauro Zambellini Novembre 2009

lunedì 2 novembre 2009

Big Star


La recente pubblicazione da parte della Rhino di un box di 4 CD intitolato Keep An Eye On The Sky ridà visibilità ad un dei gruppi più lungimiranti e misconosciuti degli anni 70, i Big Star.
Citati a più riprese dai gruppi del rock alternativo americano i Big Star di Alex Chilton ancora oggi godono di un culto e di un attenzione tra colleghi e addetti al lavoro che contrasta nettamente con le loro vendite . I Big Star costituiscono l’ennesimo esempio di incomprensione da parte del pubblico, impreparato all’inizio degli anni 70, quando le classifiche erano sbancate da pezzi chilometrici e dal progressive rock, a cogliere l’essenza intrinsecamente pop di brani della durata di tre minuti nei cui solchi si respirava la freschezza dei 45 giri dei Beatles, dei Beach Boys ,dei Kinks, degli Small Faces, dei Byrds e dei gruppi minori del brit-pop dei sixties.
Considerati dalla stampa specializzata e dalla critica ma ignorati dal grosso pubblico, i Big Star furono considerati dallo show biz la cosa più anacronistica di quegli anni, salvo poi accorgersi, con il punk ed il post-punk della loro genialità e della loro lungimiranza.

Bande come i REM, i Db’s, i Jayhawks, Steve Wynn, i Replacements, i Gin Blossoms, Wilco, i Golden Smog, i Black Crowes tanto per citarne alcuni, debbono proprio a loro parte della propria ispirazione ,tanto che non è azzardato considerare i Big Star come dei minori Velvet Underground non tanto per il tipo di musica quanto per il peso avuto in termini di immaginario rock, gruppi culto con scarsissimo peso commerciale ma che hanno indotto più di una generazione a prendere in mano gli strumenti e a formare rock n’roll bands.
La similitudine con il gruppo di Lou Reed non riguarda lo stile musicale (anche se nel terzo album dei Big Star c’è una ripresa di Femme Fatale e Chilton non ha mai nascosto la sua stima per il poeta newyorchese) perché più che allo sperimentalismo ed al feedback, i Big Star nei loro primi due album si rivolsero verso quel modo tutto british di miscelare armonia e tensione rinverdendo il pop secondo lo stile rock n’roll e R&B di Memphis.
I Big Star sono una creazione strettamente memphisiana dell’’enfant prodige locale, Alex Chilton che dopo aver abbandonato i Box Tops dei multiseller The Letter e Cry Like A Baby si inventa una carriera solista dalle parti del Greenwich Village a New York.
Non è però il folk-rock la sua vocazione ma il vecchio formato sixties del rock, canzoni stringate trainate da una melodia accattivante e spruzzate di arrangiamenti vagamente soul e rhythm and blues. Una sorta di Phil Spector dalle parti di Graceland.
Tracce di questa transizione stilistica sono reperibili in 1970 , l’album di Chilton pubblicato solo nel 1996 che raccoglie del materiale registrato agli studi Ardent di Memphis in quell’anno. Proprio da lì nascono i Big Star. Il passo decisivo è però l’incontro tra Chilton e l’altro cantante/chitarrista Chris Bell, memphisiano di famiglia agiata e madre inglese e una grossa passione per i gruppi della british-invasion. Il suo gruppo si chiama Jinx , stretta assonanza coi Kinks, e le sue idee corrono parallele a quelle di Chilton. Il sodalizio diventa realtà agli Ardent Studios dove lavorano John Fry e Terry Manning, entrambi amici di Chilton dai tempi dei Box Tops. All’inizio il nuovo ensemble si fa chiamare Rock City ma presto divengono Big Star con l’inserimento del bassista Andy Hummell e del batterista Jody Stephens (Golden Smog) a fianco di Chilton e Bell.

Gli Ardent sono la loro casa e da lì esce, nel 1972, il loro primo album, lapidariamente intitolato #1 Record . Armonie leggere e pop robusto, melodie alla Byrds ed una voce perfetta per la programmazione radiofonica AM. Purtroppo sono le radio FM le nuove padrone dell’etere americano ed il disco naviga in aperta contrapposizione con l’imperante progressive rock e con gli assoli chilometrici dei Led Zeppelin. I sixties sono ormai un ricordo di un’era innocente e quindi il disco non vende un cazzo nonostante la critica specializzata si spertichi in lodi. In più ci si mette anche la sfortuna. La Ardent Records è in contratto con la più famosa Stax la quale viene assorbita dalla Columbia che nel gran calderone della distribuzione perde letteralmente il master del disco.
Le conseguenze per il gruppo sono drammatiche perché i quattro, frustrati e delusi, cominciano a bere e ad impasticcarsi tanto che Bell sarà costretto a rivolgersi allo psicanalista. Quando lascia il gruppo soffre di depressione e paranoia (morirà per un incidente stradale nel 1978) ma i Big Star non mollano e pubblicano Radio City, un album segnato dal songwriting di Chilton in cui brillano le classiche September Gurls e Back Of A Car.
Chilton è al top della sua creatività e coniuga il suo passato coi Box Tops con l’energia della Plastic Ono Band e la purezza delle registrazioni della Sun Records . Radio City la cui bella foto di copertina è opera di William Eggleston si rivela un album seminale ma troppo out of time e non può competere contro Golden Earring, Mahavishnu Orchestra e Bachman Turner Overdrive, ovvero i bestseller “da tendenza” di quei giorni.
Indomito, Alex Chilton ritorna in studio di registrazione e con l’aiuto del produttore Jim Dickinson ( scomparso nell’agosto di quest’anno) realizza il terzo album intitolato a seconda delle edizioni 3rd o Sister Lovers. Il disco risulta un vero enigma e viene pubblicato solo nel 1978, quattro anni più tardi.

Album misterioso e di confine, 3rd/Sister Lovers è molto diverso dai precedenti lavori, soprattutto per le liriche esistenziali angoscianti e depresse e per gli arrangiamenti assolutamente arditi, frutto degli esperimenti dell’ingegnere John Fry. Album anti-commerciale per eccellenza (nessuno se la sentì di pubblicarlo) che comunica un senso di inquietudine e di conflitti interiori oltre che una palese dipendenza da alcol e droghe, il terzo Big Star è un lavoro impressionistico caratterizzato da contrasti, strumenti poco riconoscibili, parole oscure e, in virtù anche dell’inclusione di Femme Fatale , da un decor fosco e quasi velvettiano.
Pubblicato più volte (dalla Aura, dalla PVC, dalla Line e dalla Rykodisc) con sequenza di canzoni ogni volta differente, 3rd/Sister Lovers è un disco che come ha affermato Jim Dickinson dimostra come il music business non sia sempre pronto e disposto ad accettare la parte oscura dell’esistenza.
Tutta l’opera dei Big Star compresa una cospicua dose di inediti ed outakes (sessanta) ed un rara esibizione live del 1973 a Memphis è il ricco menù proposto dal recente box di 4CD Keep An Eye On The Sky ma contemporaneamente la Universal ha ristampato rimasterizzati i due seminali primi album del gruppo, #1 Record e Radio City.

MAURO ZAMBELLINI 2009

lunedì 26 ottobre 2009

Gov't Mule > By A Thread


Difficili e arditi come è loro solito nei dischi in studio, i Gov’t Mule mettono a segno uno dei loro migliori lavori, fatta eccezione per le esaltanti prove live di With a Little Help From Our Friends, The Deepest End e del DVD A Tail of 2 Cities. In studio i Muli non concedono nulla alla scorrevolezza e al “facile sentire”, sono impegnativi, complessi, ostici. Non fa eccezione By A Thread un disco solido come una roccia che richiede parecchi ascolti prima di essere apprezzato, prima di considerarlo uno dei loro lavori di studio più completi. Meno immediato e fruibile del precedente High and Mighty (2005), By A Thread riflette una visione cupa del mondo avvalorata da testi che traspongono una accettazione sconsolata della realtà, quasi un arrendersi davanti a tante ingiustizie e disuguaglianze. Così non sorprende che l’inizio del CD sia affidato a Broke Down On The Brazos, un brano che affronta lo smarrimento psicologico con una durezza e delle piroette sonore che ricordano i King Crimson del Robert Fripp più sperimentale se non che, in scena, c’è la chitarra ferrosa e tetra di Billy Gibson ad aiutare Warren Haynes mentre il basso di Jorgen Carlsson spara un granitico funky post-atomico.
Un inizio muscoloso che si ripete nel seguente Steppin Lightly dove è ancora Jorgen Carlsson, un mattatore per tutto il disco, a dare il drive con il suo mostruoso basso mentre Haynes canta da disperato e schitarra come un ossesso. Roba pesante, dura da digerire, hard-rock, free e funky invecchiati nell’acciaio.
Più fruibile è l’unica cover del disco, il traditional Railroad Boy qui trattato con una sapiente vena celtica che permette al batterista Matt Abts di ergersi in tutta la sua potenza e ai Muli di inscenare finalmente una di quelle ballate rock per cui sono famosi, contorta quanto si vuole, aspra e massiccia ma alla fine epica e grandiosa. Una delle tracce migliori del disco.
Poi si ritorna al muro di suono di cui i Muli sono capaci con architetture sonore complesse, trovate strumentali, tecnica e una forza esecutiva impressionante. Prendete ad esempio Monday Morning Meltdown una cantilena funerea che sembra fare da sfondo ad un film catastrofico sulla fine del mondo, una specie di preghiera riguardo ai peccati dell’America del dopo 11 settembre caratterizzata da un contorsionismo strumentale che nella parte fanale si stempera in una accattivante linea di chitarra jazz. Otto minuti, una lunghezza abituale per i Muli, che si ripetono in Inside Outside Woman Blues#3, un blues lordo che dispiega tutto l’armamentario tecnico-strumentale del gruppo con Haynes che fa l’Hendrix, la sezione ritmica che mette a soqquadro una fabbrica siderurgica e le tastiere di Danny Louis che sibilano come un serpente dietro le note della chitarra. E’ un torch-blues contorto e sofferto che all’inizio incede lento e pesante come un pachiderma per poi liberarsi nel finale in un assolo di Gibson di altissima qualità in cui si respira tutta la classicità del Chicago blues.
Altri otto minuti con Scenes From A Troubled Mind, titolo azzeccato per un brano che parte lento e poi schizza nervoso dietro un furente rock zeppeliniano per poi ritornare all’insana tranquillità originaria. Una parvenza di normalità la offre World Wake Up, canto di speranza sulle sorti del pianeta contrassegnata dall’andamento pacato, dal tono riflessivo e dalla voce compassionevole di Haynes. Una auspicata richiesta di armonia e tolleranza dopo tante cupezze, chiusura di un disco che mostra una non banale divagazione reggae-soul (Frozen Fear) sulla falsariga della loro geniale versione dub di Play With Fire degli Stones ed una di quelle ballate (Forevermore) che trasudano l’eroismo del rock.

By A Thread non è un disco perfetto e nemmeno consolatorio ma è un atto di lucida coerenza da parte di uno dei gruppi più coraggiosi, originali ed innovativi del recente rock/blues.

Mauro Zambellini Ottobre 2009

GOV’T MULE
By A Thread
Provogue
***1/2


giovedì 22 ottobre 2009

Ian Hunter > All American Alien Boy


Non è un disco nuovo e nemmeno una ristampa dell’ultima ora ma quando le cose sono belle il tempo conta relativamente. Questo di Ian Hunter è un signor album, il secondo dopo aver abbandonato i Mott The Hoople, un gruppo troppo spesso assimilato al glam ma ricco di intuizioni e di lungimiranti esplosioni rock. Pubblicato nel 1976 All American Boy mette in risalto la voce di Hunter ed il suo senso della ballata, cosa che gli deriva dall’aver cominciato come folkie e soprattutto con l’essere da sempre un grande estimatore di Bob Dylan. Il suo senso della ballata, il suo erratico stile poetico, la sua lunatica ispirazione hanno fatto di lui un rocker atipico capace di ammaliare con brani dondolanti e romantici spesso accompagnati dal pianoforte e nello stesso tempo di eccitare con un rock sguaiato, anfetaminico, chitarristico, a cavallo tra Bowie e Rolling Stones e già prefiguranti un certo atteggiamento punk.
Il suo status di rocker ha conosciuto momenti felici specialmente tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ottanta con dischi quali You’re Never Alone With a Schizophrenic dove tra i musicisti spiccavano i nomi di Mick Ronson, John Cale e i due E-Streeters Roy Bittan e Max Weinberg e con l’energico live Welcome To The Club ma tra le sue opere migliori c’è sicuramente All American Alien Boy recentemente ristampato con sei bonus tracks prese tra out-takes e single version. Lo si può trovare anche in una versione giapponese di medio costo con una bella confezione ed un booklet ben informato.
Fatelo vostro perché Ian Hunter sciorina ballate di gran classe, è il caso di Letter To Britannia From The Union Jack, la pianistica Irene Wilde, la sublime You Nearly Did Me In, il midtempo di Apathy 83, la dylanesca God e rockacci sporchi di rossetto e birra (Restless Youth e All American Alien Boy) con tanto di sax rabbiosi (David Sanborn), trombe (Lewis Soloff) e tromboni che fanno molto R&B da locale malfamato. Il disco è un perfetto incrocio tra melodie british e sound americano (fu registrato agli Electric Lady Studios di New York) e ha una inconfondibile matrice urbana che richiama album come Transformer di Lou Reed e in qualche ballata anche Blood On The Tracks di Dylan...
Ma Hunter sfugge alle catalogazioni perché, come succede in un brano come Rape, nello stesso pezzo è possibile incontrare simultaneamente il folk-rocker, il cantante alla Randy Newman, lo storyteller rapito dalla luna ed il David Johansen delle notti newyorchesi, ripulito dopo la sbornia con le New York Dolls. Come Johansen e Lou Reed Ian Hunter rappresenta un pezzo degli anni settanta, quel rock metropolitano a metà tra redenzione e vizio, tra cielo e bassifondi, tra chitarre tagliabudella e un pianoforte immalinconito che ha fomentato la fantasia di tanti rock fans fulminati dal suono elettrico delle ballate e dalla cruda poesia della west side.
Di grande levatura i musicisti che accompagnano Hunter in questo lavoro: si va dal compianto Jaco Pastorius al basso a Chris Stainton al piano, da Ansley Dunbar alla batteria a Gerry Weems alla chitarra e poi i fiati di Soloff (Blood,Sweat and Tears) e David Sanborn.
Non lasciatevi fuorviare dai riccioli, il giubbino sciancrato ed il glamour di copertina, qui di zeppe, suoni di plastica e velvet goldmine non c’è ombra, solo rock e del tipo migliore.

Mauro Zambellini

mercoledì 14 ottobre 2009

Crossroads #1


Strade che si incrociano. L’esperienza artistica dimostra che la creatività non è quasi mai frutto del caso e dell’individualismo fine a sé stesso ma il risultato di sinergie. Contano si il genio e il talento personale, si pensi ad esempio a Hendrix e Dylan, ma a volte i grandi risultati scaturiscono da un incrocio di idee, uomini e azioni che si verificano nel posto giusto e al momento giusto.
Quello che successe agli albori degli anni settanta attorno ad una comunità artistica per molti versi “minore” ovvero quella della coppia Delaney and Bonnie Bramlett ne è un esempio. Una comunità di musicisti e cantanti che diede vita ad un sound in grado di influenzare diverse esperienze artistiche e relative produzioni musicali tanto da lasciare un segno in dischi divenuti specchio di un’epoca come Mad Dogs & Englishmen e Layla.
Un contagioso virus musicale che a macchia d’olio interessò artisti diversi, sia americani che inglesi, affascinati dall’idea di una musica che nasceva sullo sfondo di un Sud incontaminato e ancora da scoprire dove il rock si mischiava col blues ma erano i cori gospel e le voci country-soul a produrre un sound che sembrava nato per essere la colonna sonora di una comune di hippies itinerante e festaiola dove non esistevano ruoli e gerarchie ma solo un gran voglia di stare assieme. Forse è da lì che Dylan prese l’idea per la sua Rolling Thunder Revue, certo è che Delaney and Bonnie furono involontari catalizzatori di eventi a loro modo rivoluzionari.
Inventarono una sorta di southern music che precedette lo stesso southern rock e coagularono attorno a sé musicisti di grande richiamo come Eric Clapton, Joe Cocker, Dave Mason, Leon Russell, Duane Allman in una fase cruciale della loro avventura artistica.
Molti hanno riconosciuto in questo incrociarsi di idee, persone e suoni l’influenza di un disco come Music From Big Pink di The Band per via di quella nostalgica visione di un America pastorale e bucolica che si portava appresso, in un momento in cui le grandi utopie degli anni sessanta erano in crisi e il guardarsi indietro sembrava offrire qualcosa di più rassicurante.
Dylan tra le isolate montagne di Woodstock, nei luoghi in cui fu concepito il primo album di The Band era poi la metafora dell’artista in fuga dal successo e dal clamore, uno stato d’animo condiviso da tanti musicisti divenuti star negli anni del rock psichedelico e del british boom. Eric Clapton era uno di questi.

Nel 1969 Eric Clapton si trova ad un bivio della propria carriera: stabilite le proprie credenziali di bluesman con i Bluesbreakers di John Mayall e assurto a Dio della chitarra con i Cream, egli vive invischiato in uno stardom di cui fatica a capire meccanismi e logiche (cosa che capirà benissimo anni più tardi). La breve esperienza col supergruppo dei Blind Faith, idolatrati più per il nome dei componenti che altro, non ha fatto che aumentare il suo disagio e l’insofferenza verso una musica che non sente sua. Vive prigioniero di uno status che gli impedisce qualsiasi evoluzione e proprio l’ascolto di Music From Big Pink gli apre un mondo musicale per lo più sconosciuto, l’esistenza di una musica non più basata su lunghi assoli plateali e pezzi chilometrici ma “povera” e spartana, quasi sottodimensionata, con la canzone non sottomessa alla tecnica strumentale. Un rock di basso profilo contaminato dal folk, che sembra il mezzo ideale per ripensare la propria musica e contemporaneamente defilarsi prendendo le distanze dal grande carrozzone del pop.
La molla per il cambiamento gli viene offerta da Delaney and Bonnie Bramlett, che con la loro band sono il supporting act del tour dei Blind Faith e sul cui bus Clapton si trova immancabilmente a viaggiare perché stanco dello spirito da competizione che invece si è instaurato all’interno del supergruppo inglese. E’ a suo agio con la camaraderie che lega i singoli musicisti della band dei Bramlett e affascinato dalla informale e disinvolta miscela di gospel, country-blues e southern soul che essi suonano, ne apprezza l’onestà e il gusto da cucina casalinga. Diventa amico di musicisti stagionati ed esperti come il tastierista Bobby Withlock, il bassista Carl Radle, il batterista Jim Gordon, il percussionista Tex Johnson, il sassofonista Bobby Keys, il trombettista Jim Price ( entrambi seguiranno poi i Rolling Stones ) e la cantante Rita Coolidge.
Il tour dei Blind Faith finisce nell’agosto del 1969 e Clapton passa il resto dell’’anno a lavorare a una serie di progetti mirati a potenziare più il suo lavoro di musicista che la sua fama. Si unisce come sideman agli stessi Delaney and Bonnie per il tour europeo e ne assorbe la loro musica, straordinariamente collettiva e specchio di una famiglia che vive e lavora on the road. E’ un sound molto diverso dal british-blues dei Bluesbreakers e dal power rock-blues di Cream e Blind Faith, si suona a briglia sciolta come in una jam ma le voci evocano il soul e il gospel delle funzioni religiose battiste e c’è una libertà e un anticonformismo che è tipica della musica sudista. Tre chitarristi, tra cui il Traffic Dave Mason, doppie percussioni, trombe e sax, l’organo di Bobby Whitlock e una cascata di voci, il sound di Delaney & Bonnie & Friends On Tour with Eric Clapton (Atco, 1970) è un’orgia di suoni e di voci che gode del lavoro alla consolle di Andy & Glyn Johns (non a caso li ritroveremo in Exile On Main Street, disco che deve molto a questo sound “impiastricciato”) e viaggia sulle strade dell’ultima illusione comunitaria degli anni sessanta. Un coacervo di umori che costituisce il modello del grande carrozzone circense di Mad dogs and The Englishmen di cui fanno parte i musicisti della Bramlett band ovvero i soliti Leon Russell, Jim Gordon, Carl Radle, Rita Coolidge , Jim Price e Bobby Keys più il tastierista Chris Stainton, il chitarrista ritmico Don Preston, i percussionisti Chris Blackwell, Sandy Konikoff e Bobby Torres e il batterista Jim Keltner. Oltre naturalmente al leader Joe Cocker e ad un copioso coro di voci . L’idea è quella di ricreare l’atmosfera goliardica da itinerante festa hippie con una band che lasci spazio ai solisti e alle performance individuali e poi si tramuti in un caravanserraglio di potente rock-soul con cover che hanno fatto la storia del pop come Honky Tonk Woman, the Letter, The Weight, Let it Be, Something, Give Peace a Chance, I’ve Been Loving You Too Long,soprattutto Feelin’Alright che funge un po’ da manifesto filosofico-spirituale dell’operazione.
Il tentativo è quello portare in giro per qualche mese ( 65 concerti in 57 giorni) una idea del rock utopica e libertaria, con coreografie da spettacolo circense e modalità da revue di black music. Un progetto ideato da Denny Cordell e Leon Russell che riesce e anticipa quella che sarà la più “colta” e sbandata Rolling Thunder Revue ma che finisce presto tra i litigi, dopo aver regalato un memorabile Joe Cocker Mad Dogs&Englishmen, film e disco live registrati nella primavera del 1970 al Fillmore East di New York e al Civic Auditorium di Santa Monica.
La recente pubblicazione nella serie Deluxe Edition curata da Bill Levenson ha ampliato la scaletta del disco originario aggiungendo fondamentali innesti quali The Weight ( ennesima connessione col disco di The Band), Something, Darling Be Home Soon dei Lovin’Spoonful, Further On Up The Road, Hummingbird e Dixie Lullaby di Leon Russell e il cavallo di battaglia di Cocker With A Little Help From My Friends.

Ma è Eric Clapton a servirsi maggiormente della collaborazione di Delaney e Bonnie Bramlett allorché inizia a lavorare al suo primo disco come solista agli Olympic e Trident Studios di Londra verso la fine del 1969. Nel gennaio del 1970 si sposta poi a L.A al Village Recorders e con Delaney nelle vesti di produttore, Leon Russell al piano e il resto della ciurma come band realizza l’ omonimo Eric Clapton (Atco 1970, anch’esso ristampato in Deluxe Edition), una delle performance vocali più rilassate del musicista inglese, un disco che per atmosfere e sonorità è lecito accostare a 461 Ocean Boulevard. Un irresistibile groove fluido e bluesato è il tappeto su cui scorre il disco, frasi chitarristiche morbide e un tono quasi conversazionale, quel laid back diventato sinonimo dello stile di manolenta. Artefice di un tale sound è la Fender Stratocaster che sostituisce la più dura Gibson ma fondamentale è anche la presenza della band di Delaney e Bonnie, l’uso delle voci gospel, l’Hammond invadente, lo spirito da jam band con cui vengono effettuate le registrazioni e la coralità dell’insieme. Oltre ad un songwriting in grado di regalare grandi canzoni ( Let It Rain ad esempio), passo decisivo nella trasformazione di Clapton in rocker a tutto tondo.
L’album Eric Clapton uscì nell’agosto del 1970 ma non risolse del tutto l’ambivalenza di Clapton nei riguardi dello star system visto che il chitarrista scartò l’ipotesi di promuovere il nuovo disco col proprio nome ma si camuffò da sideman col nome di Derek. Assieme ai fuoriclasse della Bramlett band ovvero il tastierista Bobby Whitlock, il bassista Carl Radle e il batterista Jim Gordon, diede vita a Derek and the Dominos, un potente quartetto che per qualche tempo dominò il campo del rock-blues anticipando l’arrivo della Allman Bros Band.
Clapton rivestì una posizione in Derek and The Dominos che assomigliava a quella nel tour con Delaney and Bonnie ovvero evitava di essere il leader e lentamente prendeva confidenza con il ruolo di cantante (nei Cream la voce era Jack Bruce e nei Blind Faith Steve Winwood), dividendo parecchie armonie vocali con Whitlock e sperimentando assolo dopo assolo la sua doppia veste di cantante e chitarrista.
Il risultato è documentato da In Concert un disco live uscito solo nel 1973 e ristampato ventanni dopo dalla Polydor nella seria Chronicles col titolo di Live At The Fillmore, un doppio cd con versioni da pelle d’oca di Presence Of The Lord dei Blind Faith, di Let It Rain (diciotto minuti compreso un estenuante assolo di batteria), di Little Wing di Hendrix, di Blues Power e con una Crossroads rallentata in modo divino.
La maggior parte del materiale di quel live si basava sul capolavoro in studio di Derek and The Dominos ovvero Layla and Other Assorted Love Songs (Atco,1970) un album epocale che nell’occasione del suo ventesimo anniversario ha beneficiato di una riedizione in box di tre cd, The Layla Session (Polydor, 1990), con una valanga di jam e materiale inedito.
“All’inizio sembravano più che altro tentativi, Bobby Withlock aveva due o tre canzoni, Clapton un paio di blues mentre Carl Radle si portò dei vecchi dischi di Chuck Willis. L’arrivo di Duane Allman catalizzò i Dominos in una esplorazione libera e disinibita nei suoni del blues e del soul. Non era una confezione da studio ma una vera rock n’roll band e l’atmosfera che si respirava era di quelle che chiudono un’era con un capolavoro. Certo, circolava un sacco di droga ma tutti erano giovani e l’effetto era quello eccitante della creazione e del coinvolgimento comune”. Così il produttore Tom Dowd presentò le sessions che diedero vita all’album, fondato sulla sognante e romantica Layla, il cui celebre assolo di chitarra fu il frutto dell’intervento di Duane Allman. Un album epico nella sua bellezza e uno dei punti più alti raggiunti allora nella contaminazione tra blues e rock psichedelico.

La storia di quell’ album comincia qualche tempo addietro quando Delaney e Bonnie Bramlett sono alle prese ai Criteria Studios di Miami per la registrazione del loro From Delaney to Bonnie With Love (Atco,1970). Il produttore Jerry Wexler, che abitava nelle vicinanze di Miami, fu chiamato da Delaney per contattare Ry Cooder, il quale avrebbe dovuto suonare la slide in un paio di brani. Cooder era indisponibile perchè occupato in altri progetti e allora Wexler disse a Delaney che il problema non sussisteva perché conosceva chi servire al caso. Ai Criteria Studios arrivò così Duane Allman che con la sua slide abbellì Soul Shake aumentando il tasso southern di un disco che già poteva contare sul piano di Jim Dickinson e sui fiati dei Memphis Horns.
Durante quel periodo arrivò ai Criteria Studios anche Eric Clapton per registrare con Derek and The Dominos. Clapton, amico di Delaney and Bonnie, fece così conoscenza di Duane Allman.
Tom Dowd che aveva il compito di produrre il nuovo lavoro di Clapton capì subito che i due chitarristi erano in sintonia e organizzò un meeting non appena gli Alman arrivarono a Miami per uno loro gig. Nell’agosto del 1970 due tra i più grandi chitarristi del rock entrarono in contatto diretto coi loro strumenti, Clapton e Duane Allman, talvolta accompagnati dagli altri musicisti a volte soli, trascorsero due giorni e due notti a provare e jammare sui brani di blues e R&B che più amavano. Dowd registrò la prima jam dei due insieme e Gregg Allman, ammise poi che quella fu una delle migliori performance nella vita di suo fratello Duane.
Clapton si trovava a Miami per registrare un album e fu quindi naturale chiedere la collaborazione di Duane nella registrazione di Tell The Truth. Lo si sente nel secondo assolo di slide e lo si sente in Key To The Highway. La presenza di Duane fu decisiva, sebbene pensasse che il suo contributo fosse limitato a due o tre tracce, Clapton lo coinvolse in tutto il disco. Interruppe le sessions per qualche giorno per suonare assieme alla Allman Bros.Band ma subito dopo ritornò in studio a finire l’album di Derek and The Dominoes.
L’epicentro di Layla & Other Assorted Love Songs è costituito dalla lunga suite-canzone Layla scritta da Clapton per esorcizzare i suoi turbamenti d’amore per la moglie dell’amico George Harrison. La canzone venne scritta come una soffice e lenta ballata ma quando Duane sentì Clapton suonarla capì immediatamente che mancava di energia e di un impatto rock maggiore. Duane suonò il riff conduttore della canzone mentre la tormentata voce di Clapton si avvolgeva attorno al driving chitarristico dell’Allman. Qui, in Layla la contro-melodia di Duane evoca il pianto di un uccello ragione per cui i Lynyrd Skynyrd dedicarono Freebird al loro guitar-hero per eccellenza.


Se si analizzano i dischi citati fino ad ora si vede come i musicisti coinvolti e l’incrocio di suoni ed esperienze derivino tutte dal giro di Delaney and Bonnie Bramlett. La coppia si incontrò per la prima volta a Los Angeles nel 1967, Bonnie Lynn era nata nel 1944 nell’Illinois e aveva lavorato nelle Ikettes di Ike and Tina Turner mentre Delaney Bramlett (Mississippi,1939) aveva bazzicato il giro di Leon Russell e J.J Cale per poi militare prima nei Champs e poi nei Shindogs. I due si sposano subito dopo essersi conosciuti e firmano per la Stax con cui incidono i dischi migliori. Lavori non trascendentali ma depositari di un suono che traeva origine dal sud degli Stati Uniti e miscelava in modo originale soul e gospel, blues e rock, country e R&B rispettando la cultura e gli umori di quella regione ma apportando un verve propria dell’ambiente hippie urbano. Home (Stax,1969) recentemente ristampato dalla Universal con sei inediti è il disco che più attesta della loro vena southern soul con invitati del calibro di Isaac Hayes, Eddie Floyd, Steve Cropper, Donald “Duck” Dunn, Al Jackson, Booker T.Jones e i Memphis Horns ovvero la crema dello Stax sound per un disco di viscerale R&B dove la voce “jopliana” di Bonnie risalta in tutta la sua espressività.
To Bonnie from Delaney With Love ( Atco.1970) insiste sullo stesso schema e mette in luce la produzione southern style dell’abbinata Jerry Wexler-Tom Dowd e inoltre la slide di Duane Allman e il piano di Jim Dickinson, nomi che hanno dato legittimità musicale al sud creando un sound ancora oggi imitato..
Oltre al già citato On Tour with Eric Clapton non si può ignorare Motel Shot (Atco, 1971) uno splendido disco acustico che non è azzardato considerare come l’antesignano di tutti gli unplugged. Purtroppo non è ancora stato ristampato ma chi lo trovasse in vinile non se lo lasci scappare visto che si tratta di un autentico gioiellino. E’ basato su un concept ovvero le stanze di motel a basso costo, spersonalizzate e anonime che la band (e le band) si trovava a frequentare durante i tour. In questi spazi freddi e squallidi, comuni a tanti alberghi i musicisti si trovavano spesso ad occupare il tempo improvvisando musica con strumenti acustici raffazzonati, tamburelli, lattine e bottiglie, chitarre acustiche, a volte un piano scordato abbandonato nella hall del motel. Motel Shot è il tentativo di ricreare l’atmosfera rilassata e informale di quei momenti umanizzando i tempi vuoti di una band on the road. Musica calda e amichevole quindi, da suonare tra il letto, il lavandino e l’ anticamera, un gospel-soul da stanza d’albergo intriso di melodie country, con versioni di “basso profilo” e alta qualità di classici quali Will The Circle Be Unbroken , Rock Of Ages, Come In My Kitchen, Faded Love e una superlativa rivisitazione di Going Down The Road Feeling Bad con piano e slide da favola.
Vi partecipano tutti i membri della band di Delaney and Bonnie che sono poi i protagonisti di questi crossroads compresi Duane Allman, Leon Russell, Dave Mason e l’enfant prodige Gram Parsons.
Era il 1971 e quel disco così defilato e poco rinomato in cui si ritrovavano i musicisti “nascosti” che avevano dato vita a capolavori come Layla, Mad Dogs and Englishmen e Clapton, col suo carico di malinconia e di suoni caserecci sembrava chiudere un epoca. Nelle stanze di un motel di una qualsiasi highway americana si consumava definitivamente il sogno di una musica comunitaria e fraterna, utopica anche, che non riconosceva leader e ruoli, gerarchie e barriere di ogni genere, razziali o stilistiche e che aveva come prerogativa principale lo star bene insieme, il dividere la vita sulla strada. Nella stanza di un motel venivano definitivamente archiviati gli anni sessanta con tutte le loro utopie, da quel momento in poi il rock non sarebbe stato più così innocente.

Mauro Zambellini

domenica 4 ottobre 2009

i più selvaggi del 1978


i preferiti di Mauro Zambellini, anno 1978

Little Feat > Waiting For Columbus
Bruce Springsteen > Darkness On The Edge Of Town
Dire Straits
Lou Reed > Take No Prisoners
Mink DeVille > Return To Magenta
Tom Waits > Blue Valentine
Joan Armatrading > To The Limit
David Bromberg > My Own House
Patti Smith > Easter
John Lee Hooker > The Cream
Dusty Chaps > Domino
Grape > Live
Albion Band > Rise Up Like
Ry Cooder > Jazz

da il Mucchio Selvaggio n 16, febbraio 1979

mercoledì 23 settembre 2009

Cheap Wine > Spirits (Cheap Wine Records)



Spiriti inquieti, spiriti dell’alcol. Si intitola Spirits il nuovo disco dei pesaresi Cheap Wine, due anni dopo Freak Show. Ed è un disco molto diverso. Come è abitudine dei Cheap Wine ogni loro disco possiede una specie di concept, un tema che lega i vari brani, nel precedente lavoro era la metafora del freak show che denunciava un mondo che andava al contrario in cui i pagliacci erano ( e sono) al potere, i mediocri in trionfo, i millantatori applauditi, la falsità elargita ed invece l’intelligenza torturata e la verità estinta, in Spirits il tentativo di redenzione è rappresentato da due personaggi “scomodi” e controcorrente. Il primo è Silvio Corbari, giovane partigiano faentino con un talento per la recitazione ed il travestimento che durante la Resistenza “giocò” i fascisti e liberò il paese di Tredozio con un autentico coup de fou. La storia è narrata in A Pig On A Lead (i testi sono tutti inclusi nel booklet interno al CD, confezione e foto splendide) la canzone che è un po’ il manifesto di questi nuovi Cheap Wine (se ne è andato Zano Zanotti, batterista e grafico ed è subentrato Alan Giannini) molto più orientati verso un intrigante suono acustico su cui svettano gli arpeggi e gli assoli della chitarra acustica di Michele Diamantini. E’ uno dei momenti topici dell’album A Pig On A Lead, una ballata fresca dal tono zingaresco dove oltre alla stellare cavalcata acustica di Michele e alle percussioni di Giannini, si fanno apprezzare la voce ispirata di Marco Diamantini ed il bell’inciso di violino di Luca Nicolini.
Il secondo personaggio del disco è “La Buveuse” ovvero la modella Suzanne Valadon, nome d’arte di Marie-Clementine Valide, lei stessa pittrice a madre di Maurice Utrillo, ritratta dal pittore francese Henri de Toulouse Lautrec. Più che a La Buveuse, a cui è dedicata la canzone dallo stesso titolo, l’omaggio va Toulouse Lautrec, un artista tanto famoso quanto scomodo e denigrato dai suoi contemporanei per aver rappresentato senza edulcorazioni la “feccia” e i perdenti della sua epoca ovvero i miserabili, gli emarginati, le prostitute ed i frequentatori di bordelli.
A differenza di A Pig On A Leaf, La Buveuse è un brano principalmente elettrico, che gode di un mirabile lavoro di basso da parte di Alessandro “fruscio” Grazioli ma è una elettricità contenuta, un talking lento ed ipnotico, loureediano, accompagnato dalle distorsioni della chitarra e da uno azzeccato arrangiamento con la tromba (Gigi Faggi) che proietta il brano in un mondo notturno ai confini del jazz e del primo Tom Waits. Solo due episodi ma bastano a far capire quanto i Cheap Wine siano cambiati, quanto siano lontane la aggressività e la cruda immediatezza di Freak Show ed invece Spirits brilli proprio per gli umori riflessivi, gli arrangiamenti e per un sound che se da una parte non ha completamente dimenticato l’estemporaneo graffio rock n’roll dall’altra si è aperto a suggestive parti acustiche .
Il lato rock si diceva, non è andato perso, i Cheap Wine non potrebbero farne a meno, è nella loro natura, nelle loro origini, nei loro concerti. Ecco quindi brillare le chitarre elettriche in Leave Me A Drain dove si ritrovano i paesaggi di un rock urbano asciutto e duro oppure sentire il lamento blues della slide che introduce The Sea Is Down, un brano che parte con John Campbell e arriva ai Led Zeppelin. Ma le novità introdotte da Spirits e che fanno di quest’album quello “più ascoltabile” dell’intera discografia dei Cheap Wine sono il mezzo tempo bluesy dell’introduttiva Just Like Animals, l’intermezzo strumentale di Alice, un esercizio di chitarra acustica che evoca la Little Martha degli Allman di Eat A Peach e le tre ballate, Circus Of Fools, Dried Leaves e Lay Down che in qualche modo identificano il suono dell’album.
Poi ci sono le cover, Man In The Long Black Coat del Bob Dylan di Oh Mercy! è offerta con tutto il suo carico di avvolgente mistero, le sue ombre sinistre, le sue lentezze, l’armonica quasi western di Marco, Pancho & Lefty di Townes Van Zandt è toccante, timidamente eroica, punteggiata da una tristezza affascinante che la chitarra acustica, la voce qui in basso profilo di Marco e le backing vocals tengono ancorata al crepuscolo di un orizzonte americano. E’ la ciliegina sulla torta di un disco coraggioso e “adulto” che presenta un gruppo tuttora in crescita e alla ricerca di nuove vie. Che la fortuna gli sia amica.

Sul sito www.cheapwine.net le date del loro tour.

Mauro Zambellini Settembre 2009

venerdì 18 settembre 2009

Little Feat a Londra: una notte al Rainbow


Londra, 3 Agosto 1977.

Afa rifiuti e lattine di birra popolano le vie della colorata Earl's Court, quartiere dove staziono da alcuni giorni prima di fuggire nella verde isola irlandese; nelle vetrine dei negozi, nelle entrate dei pub drappi e fotografie ricordano che, nonostante tutto, la vecchia regina è più mercificata dei Sex Pistols (è l'anno del giubileo...)Fa caldo, Londra in estate è insopportabile, fuori luogo anche gli angoli scuri in cerca di delitto, qualche apparizione dei Kids in Chelsea, i fogli murali annunciano un concerto dei Fairport Convention ad Holland Park per il sabato seguente, e alcune performance live di punks minori. Compro Time Out e nella pagina quattro leggo LITTLE FEAT al RAINBOW THEATRE per 4 sere. Bevo una pinta di Guinness e benedico le mie fortune.
Sono le 19.00, il concerto è annunciato per le 20.30, cerco la più vicina stazione underground, cambio due linee, mi danno delle informazioni sbagliate, faccio 1 Km. a piedi cercando di quietare le ire dei 3 miei compagni di avventura (che di Little Feat non hanno mai sentito parlare).
Alle 20.00 sono davanti al Rainbow, fuori poca gente, come prevedevo i biglietti sono stati tutti venduti in prevendita, falconano i bagarini a 10 sterline a biglietto (prezzo regolare 2,50 sterline). Mi sembrano eccessive e molto più per i miei compagni di avventura che di Little Feat non hanno mai sentito parlare.
Il giorno seguente devo lasciare Londra, l'occasione dei Feat in concerto è unica e non rimandabile, non mi dò per vinto e tento il colpo gobbo. Individuo facilmente tra i check-man quello più vulnerabile, è un esponente del black people, gli propongo 10 sterline per tutti e quattro, lui mi fa cenno di aspettare e al momento opportuno con una losca ed abile manovra ci fa passare. Per il superamento della seconda entrata il gioco è ancor più facile e completamente gratuito.
Dopo la tensione e la paura la giusta ricompensa. Dei Little Feat conosco bene il bootleg Aurora Backseat, il primo loro album e l'ultimo Time Loves a Hero, il teatro è zeppo, il pubblico non è quello della new-wave inglese, niente giacche di pelle, niente spille, tante facce regolari, abbondanza di baffi, barbe, long-hair e altri cimeli della Londra che fu, tanti black-people e la musica poi dimostrerà il perché… insomma un ambiente sano.
Alle 20.30, senza preavviso e nella maniera più informale possibile arrivano i Feats nella loro tipica line-up: Lowell George e Paul Barrere alle chitarre, Bill Payne tastiere e poi l'incredibile sezione ritmica Kenny Gradney basso, Sam Clayton percussioni e Ritchie Hayward batteria.
Iniziano subito, tiratissimi e senza preamboli, tra i primi pezzi ricordo Oh Atlanta, Fat Man in the Bathtub e su tutti A day at the dog races (un giorno alle corse dei cani) contenuto sull'allora ultimo Time Loves a Hero ma purtroppo non incluso sull'attuale live Waiting for Columbus.
Ciò che mi sorprende e mi affascina subito è la vivacità di Paul Barrere, la nera voce di Lowell George e l'uso singolarissimo che Bill Payne fa del sintetizzatore e delle tastiere.
Grande affiatamento, musica compatta e sostenuta che lascia però spazi anche all'improvvisazione individuale, una elettricità che non è mai fine a se stessa ma è la reale nevrosi del rumore e del ritmo della città, di città come Los Angeles, contradditorio punto d'incontro tra il nord e il sud, tra il bianco e il nero, tra il ricco e il povero, tra il bello e il brutto, tra le ville di Beverly Hills e la violenza nella metropolitana, tra l'America degli Hearst e quella dei simbionesi.
Rock urbano, molte influenze bluesy, musica che prende ma mai scontata, in continuo
cambiamento, musica del nostro tempo.

Dopo un'ora di concerto ad altissimo livello entra in scena la sezione di fiati dei Tower of Power, gruppo R&B di Oakland, spiritosamente vestiti con cilindri, smoking di raso rosa o verde smeraldo, e altre clownescherie. Un attimo di incertezza, può essere la fine del suono ascoltato prima e invece il suono dei Feats si carica di quel ritmo e quella energia nera che conferiscono un immagine spettacolare ad un concerto live. I fiati si muovono e ballano in modo incredibile, vanno e vengono sul palco, mimano, ironicamente, le pose dei sax del fu Detroit sound, spiritosizzano la scena, fanno Spanish Moon, Rocket in My Pocket e i neri in sala cominciano a muoversi e a contorcersi.
Il concerto va avanti, spettacolare la versione di Dixie Chicken che già conoscevo sul bootleg, fantastico il fraseggio di Pavne al piano, indovinatissima l'entrata dei fiati nella miglior tradizione dixie e poi il sintetizzatore usato in maniera tutta americana, diretta, senza la pretesa di costruire delle opere ma ricavandoci immediatezza, ritmo e comunicazione; miscelata con Dixie Chicken ecco Tripe Face Boogie con le inaudite violenze chitarristiche e vocali di Lowell George e Paul Barrere.

Alle 22.30, dopo già 2 ore di concerto senza interruzioni, i Feats non fanno molte storie per il bis, alcuni attimi e lo show sembra concluso ma poi Willin e Don't Bogart That Joint e la platea del Rainbow, già incandescente, esplode letteralmente.
In sala c'è Mick Taylor, Paul Barrere lo invita sul palco e si assiste ad una magica interpretazione di Apolitical Blues con Taylor che tira la chitarra come ai tempi di Love in Vain.
Esce di scena Taylor, un po' stranco in verità, e i Feats si congedano con un ultimo lungo pezzo.
Ovazioni, entusiasmo, esco dal Rainbow soddisfattissimo, i miei tre compagni d'avventura (li ho visti muoversi per tutta la seconda parte del concerto) sono sù di giri, ci si caccia nel pub più vicino e si aspetta l'ultima corsa della metropolitana per far ritorno a Earl's Court.

Non solo un fantastico ricordo: a 7 mesi di distanza esce Waiting for Columbus registrazione di quel concerto al Rainbow, il più bel disco rock del '78!

Mauro Zambellini (Il Mucchio Selvaggio n. 8, maggio 1978)

martedì 15 settembre 2009

Traffic Going Up The Country



Una storia controcorrente quella dei Traffic campagnoli che presenta analogie con l’esperienza americana di The Band tra le montagne di Woodstock.
I Traffic furono la più esotica ed eclettica tra le band inglesi degli anni ’60 e la storia dei loro album incisi tra il 1967 ed il 1969 dimostra ancora una volta come l’originalità e la bellezza delle creazioni artistiche sono spesso in disaccordo con il pensiero dominante. Non è che qui si voglia entrare in politica o in filosofia, ci mancherebbe altro ma raccontare una delle più singolari e affascinanti avventure del rock anni ’60 che prese piedi proprio nel momento in cui Londra era diventata il centro pensante della nuova musica ed invece un gruppo di musicisti del milieu londinese intrapresero un’altra strada, abbandonarono l’euforica e pulsante scena cittadina e si rifugiarono in campagna, in un cottage della verde ed umida provincia inglese per vivere, comporre e suonare in una specie di comune hippy.
In quei giorni, simili scelte comunitarie erano frequenti, spesso fomentate dall’attrazione verso le religioni orientali e la ricerca spirituale, dettate da un misticismo del vivere e del sentire che stabiliva un rapporto privilegiato con la natura e l’autocoscienza. Il mondo del pop ne fu sedotto, i ritiri spirituali dei Beatles con il santone indiano Maharishi Mahesh Yogi e la scelta bucolica degli scozzesi Incredibile String Band ma ci furono anche esperienze più “laiche” come l’invito della Band a riconsiderare il retroterra culturale dell’America rurale attraverso un periodo di ripensamento trascorso in una casa isolata tra le montagne dello stato di New York e come l’ isolamento tra i boschi e le vallate della California da parte di un bluesman di provata fede urbana come John Mayall (Blues From Laurel Canyon ), esperienze diverse che testimoniano di quante tossine da smaltire avesse lasciato la sbornia psichedelica e quanta inquietudine spirituale ci fosse in giro.

Se nella grande casa rosa di legno di Surgeries The Band assieme a Dylan scrisse le tavole del testamento roots con due opere destinate a diventare leggendarie, Music From Big Pink e The Basement Tapes, in Inghilterra furono i Traffic i pionieri della svolta campestre. Lontano da Londra e dalla frenetica attività dei club riuscirono a catturare l’energia e l’ispirazione che si sviluppò in un lungo periodo di vita e lavoro in comune tra le colline del Berkshire, nella fattoria Sheepcott Farm dove nacquero i primi loro due album, quello conosciuto come Mr.Fantasy ed il secondo, Traffic, unanimemente riconosciuto come uno dei più importanti dischi del decennio.
Che i Traffic fossero un gruppo particolare che sfuggiva alla banalità pop lo si era capito fin dall’inizio quando pubblicarono nel giugno del 1967 il singolo Paper Sun, una sorta di concentrato di pop fosforescente imbottito di sitar, flauti e tamburelli che cavalcava con intelligenza l’ondata psichedelica del ’67 e poi presero a modello gli Small Faces di Lazy Sunday e i Kinks di Waterloo Sunset inventando la dolciastra marcetta hippy di Hole In My Shoe che con frasi come bibblegum trees where happiness reigned all year round giocava ironicamente con il non sense e con le rime sballate dell’epoca.
In quel fatidico 1967 non era facile farsi largo in mezzo a tutti quei tamburelli e a quel pregnante fumo d’ incenso ma loro con due 45 giri riuscirono a far meglio dei Rolling Stones con un intero album visto che di paccottiglia mistico-psichedelica era infarcito anche Thei Satanic Majesties Request. Furono altrettanto chiare le differenze esistenti all’interno del nuovo ensemble perché Paper Sun era il lavoro della scrittura del duo Winwood-Capaldi, rispettivamente cantante/organista/chitarrista e batterista del gruppo mentre Hole In My Shoe proveniva dalla penna di Dave Mason, il chitarrista che non smise mai di andare e venire ma che regalò ai Traffic canzoni di una bellezza incomparabile quali You Can All Join In, Cryin’ To Be Heard, Vagabond Virgin e soprattutto Feelin’ Alright, uno dei classici senza tempo del rock.

I Traffic si erano formati quando il tastierista Stevie Winwood, la cui voce era un precoce assemblaggio di puro soul che pagava pegno sia a Sam Cooke che a Ray Charles, aveva lasciato lo Spencer Davis Group un brillante combo di R&B di Birmingham che aveva bruciato le classifiche con Gimme Some Lovin’, un brano destinato ad offrire una delle più indimenticabili prestazioni vocali di un cantante bianco, oltretutto poco più che ragazzino (era appena diciassettenne). Il suo ululato, amplificato dal lamento dell’organo e dall’incalzare del basso del fratello Muff Winwood sembravano strapparlo fuori dal suo corpo. Stevie Winwood, cantante, autore, chitarrista, organista e pianista, era un polistrumentrista che non aveva bisogno di dividere il palco con Davis. Era entrato nello SDG all’età di 15 anni e gli erano bastati pochi mesi per oscurare la pallida figura del leader e capire che il suo futuro era altrove. Dopo un paio di singoli fortunati tra cui Keep On Running ed almeno un album degno di nota (Autumn ’66 ) nel 1967 Winwood lasciò il gruppo di Birmingham ed iniziò a gravitare attorno alle jam session dell’Elbow Rooms a Londra in Aston High Street frequentate da Dave Mason, Jim Capaldi e Chris Wood.
Mason era stato il roadie dello Spencer Davis Group per tre mesi finchè se ne era andato Winwood, aveva cantato in Somebody Help Me e suonato la chitarra in Keep On Running. Con tutti gli altri futuri Traffic aveva partecipato alla registrazione di I’M a Man, l’altro grande hit dello SDG, fu naturale quindi che i quattro si mettessero assieme. Nella nuova formazione Stevie Winwood era l’anima R&B, un cantante dotato come pochi che faceva venire in mente Ray Charles ed un organista di poliedrica abilità mentre Dave Mason e Jim Capaldi avevano assorbito profondamente la tradizione folk inglese anche se non si potevano definire dei puristi visto il loro approccio con il pop e con il blues. Chris Wood era invece il musicologo ed il jolly della squadra per via di quella sensibilità jazzistica che riusciva ad apportare con i suoi flauti e i suoi sassofoni, tanto da caratterizzare in maniera esotica un’ alchimia sonora che rese i Traffic unici tra tutti i gruppi dell’epoca, generalmente chitarro-centrici.
Nella loro versione a quattro con Mason in organico o semplicemente in trio con Winwood/Capaldi/Wood i Traffic potevano giocare su una brillante versatilità strumentale ed in particolare Winwood, che suonava tutti gli strumenti, si poteva permettere di essere un vero one-man band in grado di registrare come successe in Means To An End ed in qualche titolo di John Barleycorn tutto da solo.
Tre mesi dopo l’uscita di Hole In My Shoe i Traffic debuttarono dal vivo, il 24 settembre 1967 al Saville Theatre di London, il locale che aveva visto esibirsi Hendrix, Who, Cream, Pink Floyd e che fino all’agosto di quell’anno fu di proprietà di Brian Epstein, il manager dei Beatles. In pochi mesi il gruppo si era conquistato una attenzione fuori dell’ordinario sia da parte del pubblico che degli addetti ai lavori così che Chris Blackwell li assunse sotto l’egida della Island, una delle etichette più progressiste dell’epoca. Erano degli hippies, vivevano come studenti fuori sede in un appartamento a Notting Hilll e quando suonavano avevano problemi col vicinato per via del rumore, non potevano fare quello che volevano e così ben presto presero la decisione di andarsene dalla città e affittare il cottage di un guardiacaccia ad Aston Tirrold nel Berkshire, un luogo contornato da boschi di noccioli e di pini. Sheepcott Farm era ad un quarto di miglia dalla casa più vicina e per tre anni divenne il loro rifugio. Tappeti indiani furono piazzati vicino al camino (ben in vista sulla copertina dell’album Mr.Fantasy ) per dare più atmosfera all’ambiente, teatro ideale di tante conversazioni notturne concernenti l’astronomia e il Libro Tibetano dei Morti, uno dei testi d’obbligo nell’’intellighenzia hippy del periodo. In un clima bucolico e pressoché idilliaco l’idea di creare musica open mind divenne un processo naturale, non ci furono problemi nell’amalgamare il folk coi ritmi latini e con i links di jazz di Wood, le strutture della musica classica con la voce R&B di Stevie Winwood e le chitarre di Mason. La differenza con un normale un gruppo pop era costituito dalla presenza di Chris Wood il cui background esulava dai clichè tipici del rock e del pop, perché oltre al jazz, in particolare quello di Rahsaan Roland Kirk, e al folk i suoi interessi erano sconfinati e andavano dalla musica africana a quella classica giapponese.
A Sheepcott Farm i Traffic potevano suonare a qualsiasi ora senza problemi usando un generatore ausiliario perché non c’era né corrente elettrica né acqua corrente ma l’atmosfera che si creò in quelle lunghe session che si protraevano fino alle 5 dell’alba fu magica e irripetibile. Per non sentirsi completamente esclusi dal mondo reale ogni tanto qualcuno di loro faceva un giro a Londra per vedere costa stava succedendo in città e quando gli amici venivano a trovarli, ad esempio Pete Townshend, Leon Russell, Stephen Stills ed Eric Burdon, la festa si protraeva per diversi giorni con l’obbligo di un giro notturno sulla jeep di Mason nelle valli adiacenti.
In quel cottage in mezzo alle colline inglesi successe qualcosa di straordinario, mentre il resto del mondo inneggiava alla swingin’ London quattro musicisti dalla personalità molto diversa convivevano insieme isolati in campagna dividendosi compiti ed impegni e creando that pastoral rock n’ roll vibe, come abilmente la definì anni dopo il loro superfan Paul Weller. In terra inglese i Traffic furono la prima vera alternative band .

Purtroppo l’idillio non durò a lungo ed in dicembre, ancora prima della pubblicazione dell’album Mr.Fantasy il conflitto tra i due leader Winwood e Mason esplose e quest’ultimo lasciò il gruppo. I due erano attratti da stili musicali differenti e soprattutto avevano caratteri diversi ma fin quando il sodalizio funzionò la musica dei Traffic beneficiò di una ricchezza esemplare (come dimostra il secondo album del gruppo) perché i due erano complementari l’uno all’altro e si incastonavano perfettamente nel melange sonoro creato. Da una parte c’era l’ indolente attitudine folk-rock di Mason sintetizzata da una ballata epocale come Feelin’ Alright, dall’altro il colorato soul-pop leggermente acido di Winwood incarnato da Dear Mr.Fantasy. In mezzo i ritmi scomposti e spiazzanti di Jim Capaldi e l’eclettico Chris Wood che con le sue partiture di flauto e sax inventava spazi di jazz rarefatto, come è possibile ascoltare in No Time To Live e Don’t Be Sad oppure creava un esotismi sonori come in 40.000 Headmen, tre titoli facenti parte del bellissimo secondo album.
Fu il brano Dear Mr.Fantasy a suggerire il titolo del primo long playing del gruppo, lavoro che consentì al trio rimasto di imbarcarsi in un tour americano mentre Mason produceva per i Family Music In A Doll’s House e poi registrava con Hendrix e suonava in Beggar’s Banquet dei Rolling Stones.
Mr.Fantasy è un disco ancora grezzo e ingenuo nelle sue aperture verso la musica etnica ed indiana. Un cospicuo uso di sitar, tamburelli, campane, tablas trasforma alcune canzoni in veri e propri raga ( Utterly Simple )mentre altri brani ritmati come fossero delle marcette (Berkshire Poppies, House For Everyone, Hope I Never Find Me Never) emanano il profumo dei Kinks e dei Beatles più barocchi. Le composizione migliori sono firmate dal trio Winwood/Capaldi/Wood e almeno quattro sono da annoverare tra le cose migliori del loro songbook: il bucolico e rilassato canto d’amore di Heaven Is In Your Mind, la sognante e velata ballata No Face, No Name, No Number (ripresa in Italia dall’Equipe 84) bell’esempio di come la voce “nera” di Winwood potesse adattarsi ad una melodia di derivazione folk, l’incredibile ed intensa libertà artistica di Mr.Fantasy prototipo di un fare jam music che poi sarà esplorato con vigore da Al Kooper e Michael Bloomfield nelle loro Live Adventures e copiato dai Beatles di Hey Jude ed il negroide jazz-soul di Coloured Rain.
Anche se poco ricordato va segnalato infine il finale Giving To You, un intreccio strumentale di blues, jazz e rock composto da tutti e quattro i musicisti che fotografa al meglio la disinvolta unione strumentale e la libertà esecutiva delle lunghe jam notturne a Sheepcott Farm.
Il colpo di scena avviene l’anno seguente, sotto la spinta del vento del ‘68 Dave Mason rientra nel gruppo ed in dieci giorni i quattro sotto la direzione del produttore Jimmy Miller, l’uomo di Brooklyn che già aveva lavorato con lo Spencer Davis Group, registrano Traffic dimostrando che tutti quei mesi di misticismo e collettivismo in campagna non erano andati perduti. Come The Band era stata ispirata dalla vita a Big Pink e i Grateful Dead dalla comune di 710 Ashbury, i Traffic incanalarono le vibrazioni di Sheepcott Farm direttamente nella loro musica.
Album sublime, pastorale e raffinato al tempo stesso, Traffic abbraccia R&B, jazz, folk e psichedelia secondo modalità del tutto inespresse prima (e anche dopo) evidenziando una spregiudicata abilità nel manipolare e fondere linguaggi e stili diversi. Tutto suona magnifico in quel disco, dal sinuoso ed ipnotico folk-rock di You Can All Join In dove Mason, come d’altra parte in Feelin’ Alright, dà il meglio di sé nelle vesti di autore, cantante e fine chitarrista al ritmato affondo psycho-rock di Pearly Queen, dai successivi contributi di Mason, decisamente smagliante in quest’album ovvero l’eterea Don’t Be Sad contrassegnata dalle doppie voci di Mason e Winwood e la meditativa Cryin’ To Be Heard arricchita da un clavicembalo rinascimentale alle jazzate Who Knows What Tomorrow May Bring e 40.000 Headmen, oltre a Coloured Rain e all’intensissima No Time To Live. Traffic cattura uno spirito di avventura e una visione libera della musica.
Per promuovere l’album vengono messi sul mercato due singoli, paradossalmente entrambi composizioni di Mason: You Can All Join In diventa un sampler molto richiesto in Inghilterra mentre Feelin’ Alright fa il giro del mondo. In entrambi i casi sul retro compare una composizione di Winwood Withering Tree che oggi viene inclusa assieme a Medicated Goo, Shangai Noodle Factory e ai due brani della colonna sonora del film Here We Go Round The Mulberry Bush nella ristampa con bonus tracks di quell’album epocale.
A dispetto però del successo ottenuto dal disco i vecchi attriti tra Mason e Winwood riesplosero ed il gruppo si trovò sull’orlo di una crisi di nervi. La Island prese tempo pubblicando Last Exit mentre Winwood ripensò al suo futuro e se ne andò per un periodo in Olanda e gli altri tre si unirono al tastierista Mick Weaver (alias Wynder K.Frog) cercando di ripetere l’esperienza nel Berkshire questa volta trincerandosi in una fattoria del Worcestershire. Tentativo che fallì miseramente dopo solo due mesi. Tornato dall’Olanda Winwood si unì a Eric Clapton, al bassista Rich Grech e al batterista Ginger Baker per la breve ma chiacchieratissima avventura dei Blind Faith e poi, deluso, raccattò nuovamente Chris Wood e Jim Capaldi per dar vita ad un altro capolavoro dei Traffic, John Barleycorn Must Die il cui titolo riprendeva una vecchia canzone folk inglese degli Watersons. Ma questa è un’altra storia.

Mauro Zambellini Giugno 2009